La condanna del muro che ci separa dalla vita

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Per la maggior parte delle persone un muro di cinta è solo un muro di cinta, mattoni e malta, autosussistenza verticale in cui non c’è proprio niente da capire. La realtà  del muro si dimostra da sola in un mondo come il nostro, che si immagina sicuro solo nella misura in cui è perimetrato. Ecco perché la gente non ha niente contro i muri di cinta; anzi, ci si potrebbe spingere a dire che li trova simpatici: se avesse terreno e soldi a sufficienza per farlo, probabilmente ciascuno se li costruirebbe anche intorno a casa. Per riconoscere una trama di violenza in un muro di cinta occorre uno sguardo non consueto, che sia insieme ferito e consapevole della sua ferita. Occorre uno sguardo narrativo per vedere i muri per quello che sono davvero, perché l’ingegneria li sa erigere e la cronaca li descrive, ma è la letteratura quella cosa – l’unica – che può ancora raccontarne la verità .
L’esordio di Sandro Bonvissuto a fare questo ci prova davvero e in gran parte ci riesce. Sollevare la copertina di Dentro (Einaudi) significa accettare sin da subito di spezzarsi le unghie contro l’autenticità  abrasiva dei muri del carcere, un mondo di cui l’autore gioca provocatoriamente con la prima persona. È una vicenda che sul piano della trama appare subito piuttosto indisciplinata, perché Bonvissuto ha una scrittura icastica, che tende al rigore dell’aforisma molto più che alla complessità  dell’intreccio. Così sin dalla prima riga il libro non spiega niente, ma costringe il lettore all’esperienza di quel che narra: ti butta nella cella, ti fa mangiare sul fornellino a gas, ti impone una notte insonne su una cuccetta lurida e ti insegna che è meglio parlare solo quando star zitto ti costerebbe di più. I reati non hanno nome in quel carcere, né appare mai necessario chiedersi perché si sia finiti in prigione o perché ci stiano quelli che si incontrano nell’ora d’aria. Rendendo impronunciabile il reato, Bonvissuto riesce a far sì che il nome stesso di ogni carcerato diventi un crimine. In questo modo la vera condanna dei carcerati è quella di vivere in un mondo condannato a sua volta, dove anche chi non ha niente da scontare parla sempre e solo di sentenze: i discorsi dei familiari, degli avvocati e delle guardie giudiziarie definiscono la pena detentiva come esperienza totalizzante che finisce per diventare misura di tutto il tempo e di tutto lo spazio passato dietro le sbarre. L’effetto di questo espediente è che la pagina in cui il protagonista finalmente esce di prigione risulta così destabilizzante che quasi verrebbe voglia di vedercelo rientrare, preda della certezza che dopo un’esperienza come quella non si può davvero pensare di raccontare un dopo. Bonvissuto infatti sposta deliberatamente tutta la narrazione sul prima, regalando al lettore il racconto dell’unica libertà  possibile, quella di un’adolescenza e di un’infanzia dove le righe della storia erano ancora tutte da tracciare. Qualunque cosa ne dicano i puericultori, quelli dei bambini sono sempre tempi maledetti e pieni di ferite; eppure la vita del ragazzino che questo straordinario esordiente ci regala nei due episodi che chiudono il libro ha una qualità  di sofferenza tutta sua, dove sia la solitudine che l’amicizia più consolante mostrano, pur nella loro semplicità , profondità  d’abisso. 
Il titolo Dentro acquista in questi racconti sfumature di senso che vanno ben oltre i muri del carcere e arrivano a includere una prospettiva d’animo da minatore, un punto di vista costantemente alla ricerca degli spessori più nascosti delle cose. Non credo che Dentro si possa chiamare romanzo: non c’è la disciplina strutturale della narrazione classica e manca del tutto lo sguardo onnipotente del demiurgo narratore che regola con misurato arbitrio il respiro dei personaggi, facendone marionette veritiere. C’è invece una specie di pensiero trigonometrico, un’attenzione al tutto che parte sempre dagli angoli e funziona come una pila nella notte: illumina a giorno sprazzi rapidi e li compone in strane sequenze, restituendo al lettore la sensazione di aver percorso a rotta di collo una strada nel bosco in una notte di lampi. Rimane la nostalgia di un paio d’occhi nel buio o di quel meraviglioso scenario intravisto solo per un attimo, ma resta anche la certezza che da solo in quel punto esatto non saresti più capace di tornarci.


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