La circolazione dei cervelli

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Caro direttore, la questione della “fuga dei cervelli” dall’Italia sta nuovamente suscitando dibattito: forse è l’occasione per porre il problema in modo nuovo, e presentare una proposta concreta. Non siamo così ottimisti da pensare che la soluzione dei mali dell’Italia sia il “rientro dei cervelli” sedotti da paesi più ricchi o meglio gestiti. Ma è vero che in diversi settori, primo fra tutti la ricerca e l’insegnamento universitari, l’Italia è afflitta da una paradosso: forma giovani capaci di inserirsi senza difficoltà  nelle istituzioni più prestigiose del mondo, ma molto spesso non è né in grado di offrire loro condizioni di lavoro equivalenti, né di attirare giovani formati altrove. Abbiamo quindi un flusso in uscita a senso unico, che non è né giusto né buono per l’Italia. L’Italia, a lungo un paese di emigrazione è ora è paese di immigrazione, ma riceve soprattutto forza-lavoro poco qualificata e continua a perdere forza-lavoro molto qualificata. Un dato nuovo della discussione è che più che “rientro dei cervelli” si parla oggi di “circolazione dei cervelli”. 
Un recente convegno dell’Aspen Italia ha insistito su questa prospettiva, radicalmente diversa da quella adottata con la legge del 2001. Legge che ha avuto risultati deludenti, in termini quantitativi e qualitativi, anche perché la strategia del ritorno non è la migliore. Gli universitari italiani all’estero hanno spesso ragioni professionali per non tornare, oltreché ragioni personali e famigliari. Inoltre, soprattutto dove sono indispensabili grandi investimenti, non è auspicabile separarli dai laboratori d’avanguardia. Per questo l’idea della circolazione è migliore dell’idea del rientro: l’obiettivo non può essere erigere muri tra Italia e estero, o di immaginare l’autarchia culturale. Se i nostri studiosi sono capaci di inserirsi nelle migliori équipe del mondo, cerchiamo piuttosto di fare in modo che la loro esperienza sia utile anche alla ricerca e agli studenti italiani. 
La strategia che ci sembra interessante proporre è la “doppia appartenenza”: rendere possibile a un universitario di insegnare, come titolare, sia all’estero sia in Italia. Non soltanto un sistema di inviti o “visiting professor”, che esiste già  anche se poco praticato in Italia, ma un vero sistema di reclutamento, che permetta l’integrazione reale nelle istituzioni italiane. Un professore non può lavorare a tempo pieno in due università , ma si possono creare cattedre parziali, secondo il sistema che esiste in molti paesi, dagli Stati Uniti alla Svizzera, dove si può essere titolari di una mezza cattedra o di un quarto di cattedra. L’organizzazione degli studi in semestri, oggi generalizzata, rende facilmente possibile a un professore passare, per esempio, tre mesi all’anno in un’altra sede. Questo sistema sarebbe dinamico, produrrebbe effettive collaborazioni tra équipe, e farebbe circolare non solo i cervelli, ma soprattutto le idee che ci stanno dentro. Permetterebbe di moltiplicare a basso costo effetti positivi sulla ricerca e sull’insegnamento. 
Il valore della proposta è subordinato ad alcune condizioni: prima, che le cattedre parziali siano aperte a chiunque abbia già  una cattedra all’estero, non solo agli italiani. È una necessità  giuridica, ma soprattutto scientifica: la circolazione dei cervelli deve funzionare in tutti i sensi, e gli italiani devono imparare a confrontarsi con il mondo anche a casa loro. Le cattedre parziali potrebbero facilmente portare in Italia scienza e cultura di altissimo livello, anche perché l’Italia resta un luogo di fascino e di grandissima attrazione per moltissimi nel mondo. Secondo, il numero delle cattedre parziali deve essere regolato in modo che queste non entrino in conflitto con le cattedre normali. L’università  italiana ha bisogno di svilupparsi, non di restringersi: la circolazione dei cervelli sarà  possibile in un contesto di allargamento delle possibilità  di carriera per tutti i giovani che meritano. I mali dell’università  italiana non saranno curati a forza di soppressione di cattedre: anzi, sono accentuati dalla ristrettezza, che moltiplica le tensioni, i conflitti, i favoritismi, a scapito della selezione qualitativa. Non c’è motivo di stupirci se i migliori vanno all’estero: in Italia semplicemente non trovano un posto al sole.
(Carlo Rovelli insegna Fisica Teorica all’Università  di Marsiglia e dirige il gruppo di ricerca in gravità  quantistica del Laboratorio di Fisica Teorica di Luminy; Paolo Tortonese insegna Letteratura Francese alla Sorbona)


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