by Editore | 15 Giugno 2012 8:24
Oggi il Consiglio dei ministri dovrebbe approvare le prime misure per monetizzare una parte del patrimonio degli enti locali e dello Stato allo scopo di ridurre il debito pubblico. Era dall’inizio dell’anno che, come rivelò il Corriere, la Cassa depositi e prestiti e il ministro dello Sviluppo, Corrado Passera, coltivavano il progetto. Al quale si sono aggiunte diverse esercitazioni di banche italiane ed estere. Fra queste, Mediobanca la cui filiale londinese, dopo un sondaggio fra le consorelle della City, aveva rilevato come una manovra taglia debito costruita attorno alla Cassa avrebbe registrato diffusi consensi. Ci sono voluti sei mesi per muovere il primo passo, a causa di sotterranei contrasti dentro il governo e fra le diverse direzioni del ministero dell’Economia. Fosse partita tra gennaio e febbraio, l’Italia avrebbe agganciato quel piano alla luna di miele di Mario Monti con i mercati. Si è invece pensato che fosse preliminare la riforma del mercato del lavoro in tempi di recessione. Probabilmente è stato un errore nell’agenda politica. Ora lo spread, il differenziale tra Btp e Bund tedeschi a 10 anni, è tornato a danzare sul 4,5%. Ma è comunque bene partire. E dirsi la verità .
I tre fondi d’investimento, che dovrebbero venir varati dalla Cassa e dall’Agenzia del demanio per acquisire gli immobili degli enti locali e delle Regioni e le partecipazioni dei medesimi enti locali nelle imprese ex municipalizzate, vanno bene. Ma, diciamolo, costituiscono un’iniziativa piccola e complicata. Piccola perché gli immobili vendibili, senza promettere di pagare poi affitti esagerati, sono pochi a dispetto dei numeri fatti correre da chi guarda vecchi rapporti cartacei e non il mercato immobiliare attuale. E piccola anche perché il valore delle partecipazioni locali — il cosiddetto socialismo municipale — è molto contenuto a dispetto delle proiezioni di alcuni studiosi. Iniziativa complicata perché questi fondi dovranno fare i conti con i campanili. Un potere pervasivo e contraddittorio che rende ardue le riorganizzazioni industriali come quelle pure possibili su autostrade, ferrovie e tranvie, porti e aeroporti. Basti vedere le difficoltà del sindaco di Milano, Giuliano Pisapia, nel vendere peraltro a buon prezzo le azioni della Sea, la società degli aeroporti del capoluogo lombardo, e della Galleria Vittorio Emanuele.
Secondo le indiscrezioni, il governo dovrebbe avviare anche la cessione di Sace, Simest e Fintecna alla Cassa depositi e prestiti se questa accetterà il prezzo — si ipotizzano 10 miliardi — che verrà proposto dal ministero dell’Economia. L’operazione impegnerà meno risorse della Cassa di quanto appaia, perché dentro Sace e Fintecna c’è liquidità in eccesso. Logica vorrebbe che, in seguito, il governo mettesse in gioco le altre risorse pubbliche: da Poste all’Enel, dalle concessioni autostradali a parti del gruppo Fs. Mettere in gioco non equivale a vendere come negli anni Novanta. I mercati finanziari non lo chiedono più. E l’interesse nazionale vi si opporrebbe. A questi prezzi si regalerebbe patrimonio pubblico alla speculazione. Si possono usare la Cassa e i suoi strumenti ma avendo un’avvertenza e un’idea di futuro.
L’avvertenza è che la Cassa non è una mucca da mungere. Ha 3 miliardi di free capital, ottimo per i suoi conti, modestissimo per la bisogna dei conti pubblici. La Cassa usa il risparmio postale, risorsa dei cittadini. Non deve sgarrare dagli equilibri patrimoniali dettati dalla Banca d’Italia. Per potere vendere beni per i 50-100 miliardi di cui si è parlato, lo Stato ha l’obbligo di rafforzare il patrimonio della Cassa sia conferendole alcune delle sue partecipazioni sia riaprendone il capitale a investitori istituzionali italiani ed esteri, interessati ovviamente a quote minoritarie. Una Cassa più ricca potrà comprare dallo Stato e consentire poi ai governi futuri, usciti dalle urne, di decidere se vendere davvero ai privati o se continuare nello schema. Ma una Cassa più ricca senza oneri per lo Stato (si può fare) avrà anche l’opportunità di emettere nuove obbligazioni in ragione di 15-20 euro per ogni euro di capitale e raccogliere così a buon mercato — al minor costo possibile per un emittente italiano — ingenti risorse da riversare direttamente e attraverso le banche nel mondo dell’economia reale. E avrà infine il dovere di allargare, laddove sia possibile, le opportunità delle nuove partecipazioni — si pensi alla Sace — collegandole meglio al sistema delle imprese. La crescita non si fa con le prediche, ma trovando soldi e idee. Gli Usa stampano moneta. Dove sarebbe la loro ripresina senza gli aiuti pubblici? In attesa che la Bce possa copiare il meglio della Federal Reserve, l’Italia ha una strada davanti a sé. Che non è machiavellica, ma ricalcata su quella tedesca della KfW, l’omologa della Cassa che possiede partecipazioni strategiche e irrora l’economia tedesca di 2-300 miliardi di prestiti, finanziati al tasso dei Bund.
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