Judith Malina: Anarchiche

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ROMA – Era indimenticabile negli anni Sessanta, quando indomita e sfacciata, con Julian Beck si stendeva sull’asfalto delle strade di New York per disobbedienza civile, contro la guerra nel Vietnam, o quando, in uno spettacolo leggendario come
Paradise Now, per sovvertire l’ipocrisia di tanti tabù morali, abbracciavano nudi gli spettatori. È indimenticabile oggi, qui, in una stanza d’albergo che, con un tocco hippy ha riempito di teli patchwork colorati sui mobili: piccola, minuta, i capelli ancora corvini e gli occhi ben truccati, solo il peso di qualche fardello in più nello sguardo, fuseaux neri e maglia bianca, seduta sul letto con due cuscini dietro la schiena e le gambe stese, mentre parla ancora della bella rivoluzione anarchica e di come il teatro possa cambiare il mondo.
Anche solo a guardarla, Judith Malina ha il potere di rievocare con tenerezza e passione quell’epoca bella e rischiosa, di libertà , trasgressioni, piaceri, cambiamenti, slanci che è stata la storia del Living Theatre, la più radicale e decisiva esperienza di sovversione culturale e teatrale degli anni Sessanta e Settanta del Novecento. Lei e Julian Beck la iniziarono nel ’47, quattro anni dopo essersi conosciuti e con il Living, un collettivo, una famiglia più che una compagnia, hanno prodotto centinaia di spettacoli, performance, happening in ventotto paesi del mondo, e in mezzo battaglie pacifiste, proteste antiautoritarie, dimostrazioni non violente.
Oggi Judith ha ottantasei anni ed è ancora lei a portare il Living Theatre in giro per il mondo. È in partenza per Parigi, poi Ginevra. Prima è stata a Torino, per il festival delle Colline Torinesi, con un nuovo giro di repliche (dopo Santarcangelo l’anno scorso) di
The plot is the revolution di Enrico Casagrande e Daniela Nicolò, riminesi del gruppo Motus, una conversazionespettacolo con Silvia Calderoni, dove racconta il valore dell’utopia per il Living e non solo. «Non mi posso fermare — racconta mescolando italiano e americano — Il Living deve mantenersi. Viviamo in un mondo governato dai soldi. Se non ne hai, non puoi nemmeno permetterti la casa. O un teatro. È orribile, ma per ora è così. Ecco perché il nostro compito è tenere viva la rivoluzione anarchica e pacifista: c’è molto da cambiare». Sta scrivendo un nuovo testo per il prossimo inverno mentre lo scorso gennaio nel teatrino del Lower East Side, in Clinton Street a New York, ha presentato History of the World.
«Sono modesta — scherza — Ho voluto solo raccontare la storia del mondo, dalle origini al futuro, fino alla bella rivoluzione. Dalla preistoria al cristianesimo, dalla rivoluzione francese a Occupy Wall Street. Per i ragazzi di Occupy abbiamo fatto molti spettacoli a New York, secondo me la loro protesta è come quella di Antigone, la ribellione contro la tirannide delle regole e delle leggi ingiuste. Perché la crisi di oggi la sentiamo tutti, ma non se ne esce senza fare qualcosa di radicale e se non vogliamo assistere alla distruzione del mondo senza cambiarlo».
Nel periodo del loro massimo fulgore artistico, a metà  degli anni Settanta, lei e Julian Beck ci avevano provato. Mentre in teatro imperava il grigiore soffocante, la maniera, che fosse dramma o musical, loro toglievano, liberavano, aprivano, portando le loro azioni negli ospedali, nelle carceri, nei supermercati…
The Brig del ’63 denunciava la vita nelle prigioni, Antigone del ’67 reclamava la resistenza alle regole non giuste, Paradise Nowdel
’68 chiedeva la liberazione dalla morale borghese, Seven Meditations on Political Sado-Masochismdel ’73 denunciava le torture sull’uomo e causò il loro arresto in Brasile.
Chi ha conosciuto Julian Beck, morto nell’85, parla di un autentico genio: di famiglia borghese aveva voltato le spalle a Yale per diventare pittore. Era amico di Jackson Pollock, Rauschenberg, De Kooning, dipingeva bene e nel circolo di Peggy Guggenheim era molto amato. Perché aveva charme da vendere, secondo Judith. Fu lei a convincerlo a passare al palcoscenico. Di quel periodo felice e sregolato, in condizioni spesso infernali di vita per la cronica mancanza di soldi, e degli incontri con uomini straordinari, Ginsberg, Gregory Corso, Lee Stasberg, Marlon Brando… Judith non ha nostalgie. «Il passato è ieri. Non lo ricordo. Non smetterò mai di dirlo: bisogna vivere ora. Ieri è finito, è solo un bagaglio. Ecco perché non voglio ricordare niente. “Now” è l’unica realtà , ora. Nel ’68, in quegli anni lì, eravamo consapevoli di stare al centro di un movimento, di toccare la gente nel cuore, di incontrare le loro speranze. Ma era il nostro lavoro: combattere per cambiare
il mondo, per essere liberi. E lo abbiamo fatto tra mille difficoltà . Però se vuoi restare libero, devi essere consapevole che sacrifichi qualcosa della tua vita. Oppure cerca di non votare quei criminali che governano i nostri paesi. Io faccio entrambe le cose. Obama? Da anarchica non l’ho votato. Certo è meglio di altri, ma anche lui sta nella giostra del potere».
Judith ha diciotto anni quando conosce Julian Beck. È una ragazza ebrea tedesca, trasferita negli Usa quando era una bambina. «Mia madre era una attrice, ma poi aveva abbandonato il teatro. Mio padre era un rabbino, aveva una sua visione politica e nella Germania nazista per lui le cose cominciarono ad andare sempre peggio. Ci trasferimmo negli Stati Uniti dove continuò per il resto della sua vita a fare reading e incontri per raccontare quello che era accaduto ai bambini ebrei tedeschi e le sofferenze della gente tedesca. Io cominciai a pensare al teatro appena imparai a parlare. A tredici anni, finita la scuola, ho avuto la fortuna che Piscator aveva aperto a New York una sua scuola di teatro». Erwin Piscator è stato il più grande teatrante tedesco del primo Novecento, insieme a Brecht, anche lui trasferito negli Usa, fautore di un teatro politico. «Lui era comunista e io anarchica. Discutevamo spesso. Io gli dicevo come l’ideale anarchico è più facilmente realizzabile del comunismo autoritario, perché è più difficile vivere in una società  a piramide con chi comanda in testa e sotto le masse sfruttate. Il teatro politico di Piscator comunque resta la mia radice e anche quella del Living: compito dell’attore è cambiare il mondo attraverso il suo lavoro. Certo, lo so anch’io che è impossibile sconfiggere l’intera struttura della società , ma puoi lavorare passo dopo passo per insegnare alla gente che si può vivere in un modo più umano, più rispettoso dell’uomo. È quello che il Living fa da sessantacinque anni».
Dopo il soggiorno italiano, in Piemonte, a cavallo tra gli anni Novanta e Duemila (una bella storia del Living è Conversazioni con Judith Malina, il libro di Cristina Valenti, sua biografa ufficiale, ma anche il film Love and politics di Azad Jafarian proiettato in anteprima al Tribeca Film Festival ad aprile e presentato in questi giorni al Biografilm festival di Bologna), dopo successi recenti come
Eureka! del 2008, il collettivo di oggi, con Tom Walker e Brad Burgess alla testa, ha realizzato Red Noir del 2009, Korach del 2010, History of the World nel 2012. L’ultimo sforzo, enorme, è stato quello di riuscire a non morire, a tenere aperto il teatro di Clinton Street. Stava per essere chiuso qualche mese fa: mancavano 10.400 dollari di affitto arretrato. Grazie a una donazione di Yoko Ono, il debito è stato ripagato. Ma poi è arrivata una seconda scadenza di 24mila dollari: come estremo tentativo è stata fatta una “call for donation” internazionale. «Anche con Julian era così: sempre difficile, sempre a lottare per la sopravvivenza. Il fatto è che noi non abbiamo sovvenzioni dallo Stato di New York e quanto alle donazioni private si ricordano che siamo anarchici e non ci danno niente. Ma non siamo gli unici in America. A New York il cameriere che ti serve a tavola in un ristorante è nel 90 per cento dei casi un attore. Ci sostengono gli amici, come Al Pacino che ha lavorato col Living… Stanca di lottare? Stanca di viaggiare, sì, vorrei poter fermarmi di più a New York, ma non stanca di lottare. È un momento importante, questo. Io ho visto il ’68 ed è bello constatare che c’è una nuova generazione di ventenni, trentenni che ha una visione del mondo nuova, come ce l’avevamo noi. In Francia, Germania, Norvegia, anche in Italia… io li ho visti i ragazzi che vogliono costruire, rinnovare, migliorare. Sì, finalmente è tornata la gioventù. La gioventù che vuole cambiare. Ed io non voglio solo stare a guardare».


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