JENNIFER EGAN “DAL QUADERNO A TWITTER L’EVOLUZIONE DEL ROMANZO”
Jennifer Egan è una scrittrice americana di impressionante bravura. È nata nel 1962, l’anno scorso ha vinto il premio Pulitzer con Il tempo è un bastardo (minimum fax) che conteneva un capitolo in Power Point e ora sta sperimentando sul New Yorker un romanzo attraverso Twitter. In Italia verrà pubblicato sempre da minimum fax (che ad ottobre manderà in libreria Guardami, un titolo uscito qualche anno fa) ma intanto vale la pena capire che forma avrà .
È stato il New Yorker a suggestionarla o è un’idea sua?
«Totalmente mia. Addirittura quando ho sottoposto alla rivista la trama del racconto che avrei scritto, non ho detto che avrei voluto farlo su Twitter, perché temevo che non avrebbero accettato. Solo dopo gli ho spiegato che avrei voluto che uscisse con la formula dei tweet. E anche allora, temevo che si sarebbero tirati indietro. Invece l’idea è piaciuta».
Perché ha scelto una trama noir?
«È successo in maniera naturale. Da un po’ di tempo volevo scrivere una spy story al femminile, esplorando il regno del noir. Twitter, per la sua doppia valenza pubblica e privata, mi è sembrato molto vicino all’idea dello spionaggio. C’è qualcosa di intimamente segreto nel linguaggio di Twitter. Una voce narrativa che si fosse espressa attraverso i tweet, avrebbe contenuto naturalmente questa ambiguità pubblico/privato. Il registro mentale di una spia compresa nella sua missione, si sposa con facilità a questo tipo di struttura».
L’ha scritto tutto insieme, o tweet per tweet?
«Ho scritto tutto a mano in un quaderno di appunti giapponese, costituito da otto rettangoli in ogni pagina. In alcuni mesi, ho riempito cinque o sei pagine del mio quaderno, fino ad avere una prima stesura. Ma era lunghissimo, probabilmente il doppio di quello che poi è stato effettivamente pubblicato. Quindi l’ho ribattuto al computer e ci ho lavorato come fosse un manoscritto. I piccoli brani, i tweet, erano separati uno dall’altro da spazi bianchi».
Di solito come lavora quando scrive? Prepara una scaletta?
«No. quando inizio, no. Per esempio Il tempo è un bastardo nasce da un’immagine: una donna che ruba il portafoglio di un’altra donna in una toilette. È un episodio che mi è successo davvero. Ero a New York, e dovevo prendere un aereo. Mi sono ritrovata senza niente: soldi, carte, biglietto. Ero disperata. In quel momento mi squilla il telefono. Era una donna. Sono di City Bank, mi ha detto, sappiamo che ha perso il portafoglio e noi siamo qui per aiutarla. Ero felicissima. Sono scoppiata a piangere per l’ansia. Lei mi ha consolato e poi ha mi ha chiesto varie informazioni, e tra queste il pin del bancomat. E io gliel’ho dato. Pazzesco, no? Perché la persona al telefono, ho capito soltanto dopo, era la ladra stessa. Che mi ha svuotato il conto. Questa conversazione mi ha ossessionato a lungo. Mi sono chiesta se lavorasse davvero in una banca e chi fosse davvero questa donna? Sono partita da lì. Anche in quel caso scrivendo prima a mano e poi copiando sul computer. Per me il rapporto tra segno scritto e schermo, è una specie di dialettica tra libertà creativa e organizzazione».
Il tempo è un bastardo va avanti e indietro nel tempo dalla fine degli anni Settanta fino al 2020. L’ha scritto in maniera cronologica?
«No. All’inizio non pensavo nemmeno che sarebbe diventato un romanzo. Volevo scrivere un racconto che avesse come tema l’industria discografica, il passaggio dall’analogico al digitale, da un business ricchissimo all’attuale crisi. Ho scritto quello che sarebbe diventato il primo capitolo, quello del furto del portafoglio, e poi il secondo. Ma a quel punto. sono diventata curiosa di scoprire l’origine dell’abitudine di Bennie di bere scaglie d’oro sciolte nel caffè. E ho proseguito così, inseguendo su e giù nel tempo le mie curiosità sui personaggi. È stata la curiosità , non la cronologia ha costituire la struttura».
Lei hai definito il suo romanzo una sorte di concept album.
«Ho pensato a un concept album solo in un secondo momento, quando ho capito che il libro era diviso in due parti: prima e dopo l’11 settembre. Come un lato A e un lato B. All’inizio, dopo che ho capito che sarebbe diventato un romanzo, mi sono data tre regole: ogni capitolo avrà un protagonista diverso, ogni capitolo avrà un sentimento, un approccio tecnico e uno stile diversi, ogni capitolo avrà una sua autonomia di senso, potrà essere letto anche senza sapere cosa viene prima o dopo. Come tanti racconti, appunto».
Non scrive mai di se stessa?
«Non sono capace. Non funziona. Non so cosa debba essere la letteratura, non è una regola generale, ma per me l’autobiografia non funziona. Ovvio che uso le mie emozioni, ma le metto in personaggi immaginari».
Lavora con un gruppo di lettura. Da chi è composto e che regole ha?
«Non sono persone famose. Sono amici di New York. All’inizio, circa 20 anni fa, eravamo tutti allievi di un corso tenuto da un poeta. Uno di noi legge, gli altri semplicemente ascoltano. La cosa interessante, è che non ci sono mai fotocopie o testi scritti. In questo modo, ascoltando, si colgono dettagli che alla lettura sfuggono. I testi che porto al gruppo sono ancora molto acerbi, mentre quelli che consegno all’editore sono passati attraverso molte stesure. Ma questo non significa che non abbia con l’editore ulteriori scambi di opinioni. Ad esempio il capitolo in Power Point non c’era quando il libro è stato acquistato. Avevo tentato di mettercelo ma non aveva funzionato e mi ero arresa. Ma l’editore ha insistito, mi ha spinto a riprovare e alla fine sono riuscita a scriverlo».
Ne Il tempo è un bastardo c’è un capitolo ambientato in Italia. Ha vissuto qui per un periodo?
«La prima volta che sono stata a Napoli era il 1997. Mentre ero lì pensavo che avrei voluto scriverne. Di solito non mi succede. Deve passare un po’ di tempo perché recuperi dei ricordi e decida di usare un luogo e una situazione per una storia. Ma a Napoli ero talmente attratta dalla sensazione di duplicità che emana quella città : da una parte la storia, forte, potente, sana, dall’altra la decadenza del presente. Questo contrasto era molto evocativo per me. Ho deciso subito che ne avrei scritto e ho preso moltissimi appunti».
Gli e-book cambieranno il nostro modo di leggere?
«Non lo so, davvero. Io ho un iPad ma non amo moltissimo leggerci sopra. Soprattutto perché non riesco mai a capire a che punto sono del libro. Mi manca il peso delle pagine da una parte all’altra. Ma le persone amano i lettori digitali e i tablet. Sono oggetti di affezione ed è bello che abbiano a che fare anche con i libri. Questo probabilmente significherà che i romanzi non spariranno. Ho un pregiudizio però: che la gente legga gli e-book con meno attenzione rispetto ai libri di carta. Ma non ho nessuna prova, è solo una sensazione. E io faccio sempre attenzione a non trasformare le mie sensazioni in idee sul mondo. E poi non voglio essere vittima della nostalgia di mezza età ».
Il tempo è un bastardo diventerà una serie per Hbo. La scriverà lei?
«Non lo scriverò io, perché non me l’hanno chiesto. E perché non saprei come fare, non guardo molta televisione. Ed è un lavoro che richiederebbe molto tempo, mentre io voglio scrivere un altro libro. E non voglio tornare su quello che ho già scritto, probabilmente mai più. Meglio che lo facciano degli specialisti, che lo faranno sicuramente meglio di me».
Le piacciono le serie televisive americane?
«Moltissimo. La prima volta che ho visto The Wire sono rimasta stregata. Era una specie di droga, non riuscivo a fare altro, non volevo uscire di casa, non avevo più neanche voglia di leggere. Sono i nostri feuilleton. I nostri Dickens, o George Eliot».
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