Io & Marilyn “Fotografarla è stato come fare l’amore”

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NEW YORK – l’uomo che fece l’amore con Marilyn, scatto dopo scatto, ha ottantatré anni e i ricordi lucidi come le pellicole che assediano il suo salotto nella casa all’ultimo piano della New York Tower di Murray Hill: «Scusi il disordine ma non so più dove mettere le foto. Ormai sono milioni: per fortuna hanno inventato il digitale». Bert Stern parla asciutto come un dialogo di Hemingway e veste ancora come se avesse mezzo secolo in meno: jeans neri, camicia oxford rosa, scarpette rosse da jogging. L’età  non cancella il fascino del giovane fotografo che sedusse la donna più bella del mondo. E che, forse, avrebbe potuto salvarla: se quella notte del 5 agosto di cinquant’anni fa avesse davvero ricevuto quell’ultima, disperata telefonata. The Last Settings è una collezione di oltre duemila scatti – giugno 1962 – che dipingono Marilyn come non s’era vista mai. Nuda: soprattutto di fronte alla morte che se la sarebbe portata prestissimo via. Sono immagini così intense che da allora gli storici – e non solo dell’arte – si chiedono senza pudore: fu vero sesso o no? 
«Lavoravo per Vogue: ero libero di realizzare le storie che volevo dopo anni spesi nella pubblicità », racconta il fotografo che è stato d’ispirazione anche per la serie tv Mad Men. «Ero a caccia di nuove idee e pensai: Marilyn non ha mai posato per Vogue. Proposi la storia all’art director e quello mi disse ok, organizzati come credi. Chiamai gli agenti di Marilyn e anche lei, a sorpresa, mi disse subito sì. Ma io non pensavo al solito servizio di moda. Caricammo le valigie di gioielli e foulard, volammo da New York a Los Angeles, mettemmo su il nostro studio in una suite dell’Hotel Bel Air. E cominciammo a scattare».
Per tre giorni e tre notti. Così dice la leggenda.
«All’inizio per un giorno solo. Tornammo a New York. E quelle foto con i gioielli, i foulard e tutto il resto piacquero così tanto che ci dissero ok, ritornate laggiù, proviamone altre. Così ci rimandarono indietro due settimane dopo per realizzare un intero servizio di moda – c’erano anche Kenneth Batelle, che era il parrucchiere di Jackie Kennedy e Diana Vreeland, e Babs Simpson, lo storico fashion editor di Vogue. Altri due giorni di scatti. Tornammo a New York e stavamo per andare in stampa. Fu allora che arrivò la notizia della morte».
Resta la magia di quegli ultimi scatti: soprattutto di quella prima notte. Come riuscì a conquistare Marilyn? 
«Stavo finendo di preparare lo studio, chiamarono dalla reception: “Miss Monroe è qui”. Scesi per accoglierla, ci incontrammo a metà  strada. Portava un paio di calzoncini e giusto una magliettina, un fazzoletto intorno ai capelli e neppure una linea di trucco. Dissi: “Sei bellissima”. Sorrise da subito: “Carina come accoglienza”. Salimmo nella suite dove avremmo dovuto scattare. Lei disse: “Un po’ di trucco?” – e io: “Non c’è bisogno del trucco”. Disse: “Una riga di eyeliner?” – e io: “Quello va bene”. Fu allora che intravide sul letto i gioielli e i foulard. Tirò su un foulard e si accorse che era trasparente. Disse: “Oh, allora vuoi dei nudi…”. Dissi: “Buona idea: ma sei tu che decidi”. Fece davvero tutto lei. Era molto creativa nelle pose: sembrava pronta a qualsiasi cosa».
Pronta a qualsiasi cosa?
«Era un periodo difficilissimo. Aveva divorziato da Arthur Miller, aveva appena perso il posto in Something’s Got To Give. Desiderava tanto finire su Vogue».
Voleva rilanciare la sua immagine.
«Qualsiasi cosa cercasse io ero lì».
Era partito con un modello in mente?
«Il mio idolo era Irwing Penn. Ma non avevo fatto programmi. L’unica foto che mi ero portato dietro era il ritratto in bianco e nero di Greta Garbo che Edward Stein aveva fatto più di trent’anni prima. Ma quella notte facemmo una miriade di foto».
Quanto durò?
«Fino all’ultimo temevo non sarebbe mai arrivata. Era Marilyn: imprevedibile. Si presentò dopo le dieci di sera. Qualcuno passò a riprenderla verso le tre del mattino. Aveva bevuto per tutta la notta. Vodka Smirnoff, champagne Dom Perignon».
Bevve molto?
«Viveva così. Avevano chiamato in anticipo: “Mi raccomando: Dom Perignon per Miss Monroe”. Ne ordinammo una cassa».
E poi la vodka.
«Che veniva versata direttamente nello champagne dal truccatore».
Avete bevuto insieme.
«No, io forse un sorso. Non mi avrebbe aiutato nelle foto: bere non aiuta mai».
Sono le tre del mattino e lei ha appena finito di spogliare Marilyn Monroe: e che cosa fa?
«Presi la mia roba e saltai sul primo aereo per New York».
Sapendo di avere in valigia le foto del secolo.
«Sapendo che era una di quelle cose che ti capitano una volta nella vita. Ero un giovane molto ambizioso».
Era già  sposato?
«Con la prima ballerina di George Balanchine: Allegra Kent».
E sua moglie non le chiese nulla? Una notte con Marilyn…
«Niente. E del resto: mica lei discuteva dei suoi balletti con me. Era il nostro lavoro: io scattavo fotografie, lei ballava. Che coppia interessante, eh?».
Nei libri di fotografia ancora si discute sulla magia di quella notte. Un’intesa così perfetta che spesso ricorre quella domanda: fu vero sesso?
«Non ci fu sesso. Cioè, non sesso vero. Ma fu tutto molto sexy». 
Che cosa vuol dire?
«Certo che ero attratto da lei. Ma dovevo restare concentrato: ero preso dagli scatti. Non avrei avuto neppure il tempo di cominciare una storia. Sarebbe stato bellissimo: prendere e sparire lassù in collina – o da qualche altra parte. Ma non accadde. Ero tutto preso dall’illuminazione del set. Io volevo fare il disegnatore: sono fotografo per caso. E per me è sempre stato così faticoso».
Scusi, mister Stern: c’è Marilyn Monroe nuda sul letto e lei è tutto preso dalle luci?
«Le luci sono la parte più complicata di una foto: trovare la giusta esposizione. Per fortuna poi hanno inventato le automatiche».
Inutile girarci intorno: Marilyn era attratta da lei.
«Forse. Cioè sì, probabilmente sì. Nelle foto si vede che flirtava. E del resto anch’io ero completamente attratto».
L’alcol. Magari la musica.
«Mettevo sempre della musica durante i set. Funzionava. Avevo comprato perfino un jukebox e l’avevo piazzato in studio: infilavo un quartino di dollaro e scendeva giù il disco».
Rivede le foto di Marilyn e ripensa a quella musica.
«Non la ricordo più. Avrei dovuto scrivermi le canzoni. Comunque a quei tempi ascoltavo i Beverly Brothers, le prime cose rock, roba così. Richard Avedon invece durante i ritratti metteva su Frank Sinatra. Che volete: era più vecchio di me».
Dice un’altra leggenda che Michelangelo Antonioni si ispirò a lei per il personaggio del fotografo di Blow Up.
«In parte: quel personaggio è basato metà  su di me e metà  su David Bailey. Però, ecco, la scena iniziale con Veruschka, che poi era una mia modella – quella è proprio basata sulla tecnica che solo io usavo per fotografare».
Così aggressiva? La modella quasi assalita, il fotografo che le salta addosso e le punta la macchina contro: era la sua tecnica?
«Sì, giusto: così aggressiva».
E usò la stessa tecnica con Marilyn?
«L’avevo lì: sotto di me. Cominciai a scattare: lei sdraiata, io sopra di lei. Balzai su una sedia e cominciai a scattarle addosso».
Ma questo è sesso vero…
«Molto sensuale, certo».
La scena iniziale di Blow Up dice tutto: Veruscka si dimena sotto di lui, lui la bacia e continua a scattare, urlando “sì, sì, sì…”. Praticamente in preda a un orgasmo.
«La macchina in pugno e la donna sotto di te… Sì, possiamo anche chiamarlo sesso».
La fotografia come atto sessuale.
«È il mio modo di amare le donne. Mi piace così. Mi piace sentirle sotto, saltarci sopra e scattare, scattare, scattare…».
Marilyn sarà  rimasta sconvolta.
«Non era il modo di fotografare che si usava a Hollywood: non proprio».
Vi sentiste ancora?
«Le mandammo indietro alcune foto. Vogue non lo fa mai ma per lei si fece uno strappo. Ci rispedì indietro quelle immagini diventate poi famosissime: quelle dove lei stessa mette una X sulle fotografie che non voleva».
Cioè le fotografie più sexy. Ma non ebbe più il modo di parlarle? Neppure di quelle foto?
«No. Dicono che lei mi cercò in quelle ore disperate prima della morte. Ma sono cose che ho solo letto o sentito dire: io quella sua telefonata non la ricevetti mai».
Ha visto La mia settimana con Marilyn? È l’ultimo film sul suo mistero.
«Ci ho dato un’occhiata, sì».
Le è piaciuto?
«Interessante».
Michelle Williams nella parte di Marilyn non l’ha convinta?
«Era okay. Ma guardando il film non ho mai avuto l’impressione di rivedere Marilyn Monroe».
Questione di feeling.
«Ho sempre pensato che solo un’attrice avrebbe potuto reinterpretare Marilyn sullo schermo. E quell’attrice è Naomi Watts».
Perché solo lei?
«Perché certe donne hanno una certa qualità . E certe no. La ricorda nel remake di King Kong?».
Chissà  quante volte avrà  ripensato a quella telefonata di Marilyn: chissà  che cosa le avrebbe detto se fosse arrivata davvero.
«Sarebbe stato bellissimo poterle parlare ancora. Avrei potuto dirle: no, non farlo. Era così bella: non c’era ragione. Ma la vita può diventare complicatissima: soprattutto se sei bella e famosa».
L’uomo che spogliò la Monroe conserva ancora qualche desiderio? C’è una foto che ha sempre sognato e non ha fatto mai?
«No: ho sempre fatto quello che volevo. La fotografia è un’arte semplice: e così naturale. È come tenere una grande registro della vita. Voglio dire: la vita è così piena di cose interessanti. E tutto quello che mi è stato richiesto è puntare una macchina di fronte a qualcuno. E scattare».


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