Il pentito: quante carriere costruite grazie ai contatti con i boss

by Editore | 25 Giugno 2012 8:36

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«Leggo di trattative e di rapporti ad altissimo livello e non mi stupisco affatto».
Parla così Francesco Di Carlo, ex boss di Altofonte, collaboratore di giustizia, uno dei principali accusatori di Marcello Dell’Utri, unico testimone oculare di un incontro tra Berlusconi e il capo della mafia palermitana, Stefano Bontate.
Di trattative è un esperto. Negoziava con la creme della società  siciliana, portando in dote ai Corleonesi opportunità  e impunità . Vantava un rapporto personale con il generale Giuseppe Santovito, capo del Sismi negli anni più bui del Paese. Quando era un detenuto, in Inghilterra, manteneva un filo diretto con la sua cosca attraverso Nino Gioè, lo stragista di Capaci, morto suicida in cella. Al suo luogotenente consegnò la richiesta di un contatto con il
fronte più sanguinario di Cosa nostra che i servizi avevano rivolto a lui quando c’era da uccidere Falcone. E poi, dopo le stragi del 1992, fu informato costantemente da Gioè sugli sviluppi dei rapporti instaurati con pezzi dello Stato.
«È semplice: Cosa nostra senza un rapporto con le istituzioni sarebbe stata una semplice associazione di malfattori. Noi eravamo uno Stato dentro lo Stato».
«Sarà  sempre così, fin quando certi personaggi pubblici si comporteranno come appartenenti a una associazione mafiosa».
«Non solo, anche professionisti di peso, gente che dentro Cosa nostra c’è sempre stata e che magari non poteva essere ritualmente affiliata».
«Uomini che sapevano benissimo che Cosa nostra gli assicurava la carriera. E loro erano contenti. Oggi li chiamano concorrenti esterni anche se qualche magistrato dice che quel reato non esiste. Mi viene da ridere».
Mai agli uomini di Cosa nostra non è vietato avere rapporti con le divise?
«Ogni divieto può essere trasgredito se c’è un interesse. Al processo Mori mi ha molto stupito la scelta del generale Subranni che ha preferito tacere. Questo la dice lunga sui personaggi ai quali si sono affidate le istituzioni. Antonio Subranni è stato al centro delle più importanti inchieste in Sicilia e si comporta come quei soggetti di cui parlavo sopra, i mafiosi non affiliati».
Ha scelto di tacere perché è indagato. Cosa c’è di strano?
«Forse temeva che gli chiedessero come mai in dieci anni, è passato da maggiore a generale. Forse temeva che
gli chiedessero quali fossero i suoi amici, erano forse Salvo Lima e Nino Salvo? ».
«A me risulta di sì, e loro erano canali diretti di Cosa nostra con il potere».
E lei, attraverso i suoi canali, ha saputo se la decisione di uccidere Borsellino era legata proprio al suo no alla trattativa?
«Non credo che sia solo questo. So che dentro le istituzioni c’era una guerra aperta: da un lato gli uomini degli apparati, servizi compresi, dall’altro Falcone e Borsellino e investigatori come Gianni De Gennaro e Antonio Manganelli, ai quali i due giudici avevano delegato le indagini tagliando fuori tutti gli altri. Voi credete davvero che quella gente, con tutti i contatti che aveva dentro Cosa nostra, sia rimasta con le mani in mano ad aspettare che li arrestassero come accaduto con Contrada?».
Senza quegli agganci Cosa Nostra sarebbe stata una semplice associazione di malfattori. Ma noi eravamo uno Stato dentro lo Stato

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