IL PAESE LIRICO “NOI POLACCHI CERCHIAMO LA POESIA NELLE BRICIOLE”

by Editore | 2 Giugno 2012 12:07

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Adam Zagajewski è un luminoso scrittore polacco in odore di Nobel che, dopo la scomparsa di Czeslaw Milosz e Wislawa Szymborska, detiene lo scettro di maggiore poeta di un paese dove la poesia ha fissa dimora, Adelphi pubblica ora, a cura di Krystyna Jaworski, Dalla vita degli oggetti. Poesie 1983-2005, la molto attesa traduzione italiana di una sua ampia raccolta di versi. Chi di Zagajewski abbia già  letto Tradimento (Adelphi), un libro di memorie, dove riflessioni e ricordi si alternano a storie esemplari, ritroverà  nelle sue poesie la stessa intensa, coinvolgente meditazione sul significato etico e metafisico della vita e dell’arte, la stessa capacità  di “ridorare” lo spettacolo quotidiano del mondo, di restituirci la vista e l’udito per potere cogliere, a partire da una foglia, dal canto di un uccello, da un frammento di cielo o da un oggetto di uso quotidiano, la trionfante bellezza del reale. Nato nel 1945 e costretto a lasciare la Polonia al momento della legge marziale (ha vissuto in Francia e negli Usa), con la fine del regime comunista Zagajewski è tornato – quando non insegna all’università  di Chicago – a vivere a Cracovia, dove è stato studente. Ed è qui, nella “la città  dei sovrani”, che lo abbiamo incontrato per questa intervista.
Cosa significa per lei essere polacco?
«Essere polacchi è un lavoro abbastanza smisurato. Siamo imbevuti della nostra poesia, delle nostre insurrezioni, delle nostre tare, dei nostri fallimenti e, di recente, anche dei nostri successi. Verso la fine degli anni ’70 ho vissuto l’esperienza della dissidenza come una grande scuola d’amicizia. Sono cose che lasciano il segno. Gli alcolisti anonimi dicono: una volta alcolista, alcolista sempre. Succede lo stesso in paesi come l’Irlanda e la Polonia che, a volte, sono ebbri o malati del loro romanticismo».
Pur non essendo mai sceso a compromessi con il totalitarismo, lei si rifiuta di condannare in blocco tutti quelli che sono stati complici di un sistema dove «tutto era mischiato e si viveva di scelte fra un atto di viltà  astratto e un omicidio concreto». Alla fine del regime comunista lei è stato a favore della riconciliazione o avrebbe preferito, come auspicava Gustaw Herling, una “lustratio”, una epurazione dei collaborazionisti dalla vita pubblica?
«All’inizio ho esitato. Mi sembrava che quella gente, che sotto il comunismo rendeva la vita talmente sgradevole, ridicola, difficile, andasse, a conti fatti, punita. A quell’epoca ero ancora in Francia e la mia opinione avrebbe comunque contato assai poco, ma nel mio foro interiore ero più vicino a Herling che a Adam Michnik, il quale aveva subito respinto l’idea di una purga. E poi ho capito che c’è un abisso tra una purga “filosofica”, in nome di una giustizia astratta ed equanime ed una reale, fatta da gente che non si contraddistingue sempre per la sua saggezza. Una purga, devastante per la società , che commette errori su errori, colpisce gli innocenti ed è, a dir poco, vergognosa». 
Che posto ha la memoria nella sua poesia?
«È evidente che la memoria ci fornisce la trama della nostra vita. La cosa si complica per ciò che concerne la poesia che, ai giorni nostri, è più “lirica” che “epica”, per usare termini un po’ accademici. In teoria, dunque, la poesia dovrebbe accontentarsi di puri momenti contemplativi, di visioni e di epifanie, cedendo alla prosa tutta la ricchezza della memoria, senza la quale parte della nostra umanità  va perduta. Ma le cose in realtà  stanno diversamente. La cosiddetta poesia lirica contiene anch’essa un grande deposito di memoria. Prendiamo il vostro Montale, le cui poesie corrono veloci come automobili, è anche lui impregnato di memoria. Vedo, inoltre, nella poesia del nostro tempo, una tensione scottante, una contraddizione violenta. Se il poeta è chiamato ad opporsi a un mondo contemporaneo opaco, invocando il fuoco dell’immaginazione, su di lui pesa anche il dovere del ricordo di Auschwitz e di Kolyma. Ma questa regione della memoria è tutto fuorché magica e sfavillante».
Lei sostiene che «la poesia polacca contiene ancora una scintilla di una antica visione del mondo magico». Qual è la ragione di questa ininterrotta, straordinaria vitalità ?
«Difficile dirlo. A volte penso a quel momento – l’inverno 1944-45 – in cui Varsavia, la capitale, ha cessato di esistere, distrutta dai nazisti. E mi sembra che allora si sia come presa la decisione tacita di riedificare la capitale, o la polis, nella poesia. Di rinforzarsi dall’interno, visto che l’esterno era così tremendo».
In una sua poesia leggiamo: «Oh dimmi, come guarire dall’ironia, dallo sguardo/ che vede senza penetrare; dimmi come guarire/dal mio silenzio». Ma l’ironia può avere anche una funzione salvifica ed essere una fonte di ispirazione potente: cosa sarebbero Szymborska e Kundera senza ironia?
«Sono d’accordo. Io stesso non potrei vivere senza ironia. Il problema è che vi sono tanti tipi diversi di ironia. Conosciamo quella socratica, kirkegaardiana, come pure le diverse modalità  di quell’ironia lieve che ci aiuta a pensare, a sopravvivere ai momenti difficili, al falso pathos delle politiche totalitarie, alla cattiva fede di taluni, alla stupidità … Ma conosciamo anche un’ironia che mortifica, che soffoca emozioni e pensiero, uccide l’entusiasmo e persino la serietà ».
Per lei «l’immaginazione – che genera la poesia – non è né perfetta né autonoma e ha bisogno di trovare un sostegno nell’onestà , nel buon senso, nella ragione». L’estetica è dunque inseparabile dall’etica?
«Sì e non solo dall’etica ma dalla ragione e dal buon senso. Nella mente di un poeta ci dovrebbe anche essere posto per un non poeta, un essere sobrio, perspicace. Vi è potenzialmente qualche cosa di fragile nella poesia – il poeta è talvolta un bambino che gioca ma che può sbagliarsi. Pensi, a Pound, che avrebbe tratto un immenso profitto se fosse stato accompagnato nei momenti d’ispirazione da un personaggio più sobrio».
Una costante della sua opera è il tema della dualità . “Il mondo è doppio, splendido e triviale”; “Il mondo è spaccato. Evviva il dualismo. E se non possiamo eliminarlo, lodiamolo!” È questo il compito della poesia?
«È difficile dire quale sia il compito della poesia. Essere vigili davanti al mondo che ci assedia? Se ci chiedessero qual è il compito della vita, ci sarebbero troppe cose da dire… W. B. Yeates, un poeta che mi è caro, ha detto a proposito dei propri saggi: “Mi hanno aiutato a tenere insieme in un singolo pensiero realtà  e giustizia”. La realtà  e la giustizia, ciò che si vede e ciò che si sogna. Si tratta di una dualità  fondamentale. La dualità  la si incontra, la si assume, la si vive. Vi è nella poesia – come quasi dappertutto – una parte lucida, intellettuale ed una parte cieca. Anche le barche sono così, con una parte sempre sommersa».
In Tradimento lei racconta che ancora ragazzo, leggendo Proust o Bruno Schulz, «fu folgorato dalla scoperta che esiste un mondo dello spirito». Che intende con questo?
«Una cosa molto semplice. Quando si è alle soglie dell’adolescenza si fanno molte scoperte in vari campi della vita. A volte, leggendo un libro o fantasticando su quanto si è letto, si scopre che esiste un mondo invisibile. Si potrebbe dire, se non fosse lievemente ridicolo, un mondo dell’anima quanto mai vasto e ricco di province. Fra i libri per l’infanzia e la vera letteratura non vi è una semplice continuità . La vera letteratura racchiude infatti un tesoro di riferimenti a cose che non è possibile esprimere diversamente, alle cose “spirituali”; le si chiama così perché non si dispone di un altro nome».
Eppure lei parla del fascino esercitato dalla parola “totalità “.
«La ricerca della totalità  sembra superata, addirittura pretenziosa dopo le rovine del XX secolo, dopo l’età  del sospetto e tutto il resto. Ma che fare se il sogno persiste… Nelle briciole si cerca qualcosa di più grande».
Leggendola si ha l’impressione che lei sia una persona in armonia con se stessa, capace di «scrivere solo nei momenti di gioia e di serenità ».
«Questo è per me un problema: forse non mostro abbastanza gli altri momenti, non necessariamente sereni, della mia vita. Ma mi sembra che in giro di lamentele ce ne siano già  abbastanza».

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