IL NOSTRO BRODO CULTURALE, DA MANZONI ALLE DIETE L’ANTROPOLOGIA IN CUCINA

by Editore | 20 Giugno 2012 7:27

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Non va a risciacquare la lingua in Arno, preferisce infarinarla in cucina «fra bio e Dio». Frigge le parole «sfizio e vizio», «etica e dietetica», «fitness e fatness», ma è immancabilmente «cotto in flagrante». Per scrivere
Non tutto fa brodoN(in libreria per il Mulino) Marino Niola ha trasformato la propria scrivania di antropologo in un forno che informa sul «sale dolce» e «la fava pitagorica» perché «se è probabile che a fare la storia sia una mano invisibile, come diceva Adam Smith, è certo che la mano in questione impugna da sempre una forchetta». Ma una forchetta per scrivere.
All’inverso, Niola maneggia, per condire e impastare, solo utensili linguistici, e con l’intelligenza dello stomaco distingue gli alimenti mitici «dal pomo di Paride all’apple di Steve Jobs» e quelli divini, a partire dai cereali di Cerere, l’extravergine di Atena e il vino di Dioniso, tutti «a denominazione di origine consacrata».
Soprattutto l’antropologo Marino Niola libera l’Antropologia italiana, che troppo studia il cibo – antropologia a quattro palmenti –, da quel tono predicatorio e supponente che la rende ideologia, retorica del «mangiare per tutta la vita da malato per morire da sano». E mostra la strada della bella scrittura ai penitenziali studiosi italiani della storia sociale dell’alimentazione e ai loro noiosissimi proclami teosofici, alla trasformazione in casseruola del In God We trust nel In Food We trust.
Molto meglio «mangiare la sfoglia» e «saltare dalla minestra» perché bisogna essere avventurieri per fare bene l’antropologia e dunque ritrovarsi addosso la polvere delle strade, come capitava a Claude Lévi-Strauss, o l’unto di sugo sulla toga accademica, come capita appunto al professore Niola che la indossa come un grembiule e porta in cattedra la famosa “bassa cucina”: la cucina di Fratta, laboratorio delle streghe di Nievo, la cucina manzoniana di Tonio, quella del “volete restar servito?”, la cucina politica di Carlin Petrini, la cucina come gioia del lettore e, nelle ultime pagine, la cucina come catalogo di Leporello.
Le amanti del Niola don Giovanni sono i piatti degli amici, e se è vero che cuochi e scrittori riproducono se stessi, in corpo i primi e in spirito i secondi, e dunque scrivono come mangiano, solo i lettori di Repubblica possono ri-leggere il sapore dei «metafisici sformati di Antonio Gnoli » , dell’ « insalata alla
Bloomsbury di Nadia Fusini profumata di agudeza» dei «poetici spaghetti maremmani di Franco Marcoaldi», della «Gricia di tonno di Mauro Piccoli». Personalmente, in questa lista di cibi sacri, condivido con Niola solo la grazia «dei rituali arancini di Hilary…».
Leporello cita per ultima amante, ma non certo come ultima, la fanciulla, vale a dire l’insicurezza, che sta alla donna come la mano sinistra sta alla destra: «Sua passion predominante / è la giovin principiante». Ed eccoci dunque alla fanciulla di Niola: «I peperoni alla midsummer’s night di Elisabetta, che sono entrati nella mia gastronomia poetica per la via più breve, avrebbe detto Virginia Woolf.
Come un amante salta dalla finestra in una stanza». E qui finalmente siamo all’intrigo di sesso ed appetito dove Niola contraddice il marchese de Sade che nelle 120 giornate di Sodoma ordina che solo le tre cuoche e le loro tre aiutanti non vengano mai molestate dai crudeli libertini.
C’è anche una mappa di ristoranti, migliore di qualsiasi guida in commercio, che già  da sola varrebbe il libro, ma non aspettatevi un ennesimo ricettario della nostalgia, uno di quei libretti ispiratissimi e stucchevoli dove la propria nonna e la propria infanzia sono rimasticate sino alla nausea, e le proprie stanchezze, celebrate come vittorie, vengono spacciate per gastronomia. Niola ci purifica anche dall’idea malsana, pregiudizio e luogo comune, che l’identità  dei popoli sia racchiusa nei cibibandiera: i formaggi dei molli e raffinati francesi; i maccheroni dell’Italia indolente, obesa e sibarita; il bisteccone di bisonte come enciclopedia della storia americana. In realtà  «la cucina è per definizione etnica e meticcia e persino il piatto più tradizionale e la più locale delle tipicità  hanno dentro le tracce dell’altro. Sono il frutto di un matrimonio misto». La dieta mediterranea per esempio «non sarebbe mai nata senza l’americanissimo tomato » e «le nostre meravigliose parmigiane non esisterebbero se le melanzane non fossero arrivate dall’oriente». Come «le narany, naturalizzate in arance… ». La stessa parola meticcio deriva da mescere: «E la tavola diventa prova generale dell’umanità  di domani».
Nell’attesa di un futuro di «“globesità ”, l’epidemia che sta facendo aumentare inesorabilmente la taglia del mondo» non ci resta che «naufragare nella zuppa», senza mai dimenticare – lo dice Kafka – che un capello nel brodo è peggio di uno spettro in camera da letto. «Aggrappato ad un crostino» dunque Niola riscrive con il cucchiaio il destino degli «umiliati e obesi» nutrendoli di aforismi: «Diminutivi e accrescitivi come grassottello, rotondetto, in carne, corpulento, paffuto, ciccione, falso magro, sono di fatto parole pesapersone, giudizi calibranti…, non ragioni fisiologiche ma ideologiche». Riesce pure a raccontare l’intonazione «spiritosa » dell’aceto e l’odore «esperideo » del citrus di Amalfi. Annusa per noi la «transustanziazione di essenze e consistenze che ha qualcosa della sinestesia, quanto basta dell’alchimia e una buona dose di fantasia». E fa del pesce fritto « il cibo più democratico » ma poi consegna lo stesso pesce all’aristocratico sesto senso, di cui dispone «solo il popolo eletto che vive di eccellenze e di essenze, di emozioni e di emulsioni ». Perché solo certe rarissime papille gustative allineate come in un innaturale portapenne consentono al cibo, rimbalzando fra palato e lingua, di sviluppare il massimo della squisitezza, che è sapore di pescato e desiderio di peccato per quelle gitane «che friggono e trafiggono con secolare innocenza, con antico istinto sacerdotale».
Con questi suoi quadri per un’esposizione alimentare, Niola dà  un senso ai sapori e agli odori, non con la sapienza di Max Weber o di Marx e Tocqueville, ma con la scienza di Quintiliano e i trucchi di Umberto Eco, non con il solito Brillat-Savarin secondo il quale «ha un sapore particolare la coscia su cui la pernice si appoggia dormendo», ma con la mandragola di Machiavelli e con i cubetti di ghiaccio nel bicchiere on the rocks, vale a dire con «l’invenzione dell’acqua fredda» come risorsa dell’homo bibens, che non è il protagonista del libro ma spesso lo si indovina – «e il link diventa drink» – acquattato accanto al curry, lo si vede re-sushi-tare, dietro un wasabi, lo si sorprende durante la divisione gerarchica del coniglio, «una coscia grande al padre, l’altra alla madre, le cosce piccole ai bambini… », e soprattutto lo si sente mentre poppa, sorseggia, centellina, succhia, aspira, assorbe, tracanna, si disseta, gargarizza, liba, lappa, sorbisce, bevucchia, sbevicchia, sbevazza, ingolla, alza il gomito, s’inebria, brinda, ingurgita, si scola, vuota, si ubriaca, pinta, si disseta, pompa e s’imbibe. Scrivere e bere, scrivere e mangiare: homo bibens e homo manducans, difficilmente un buon poeta è amico di un cattivo poeta. Anche noi del resto riteniamo di valere qualcosa se siamo amici di qualcuno, che so, di un antropologo, che vale.

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