Il museo impossibile di Ground Zero e la lite sui reperti da esporre

by Editore | 11 Giugno 2012 8:22

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Di tutte le controversie che sta generando, quella sulle facce del terrore è la più lacerante, ma anche la più sorprendente. È giusto mostrare le immagini dei dirottatori, che provocarono i massacri dell’11 settembre 2001? Significa «onorare» i terroristi islamici, come sostiene addirittura il capo dei pompieri di New York, Salvatore Cassano? Ovvero è una scelta inevitabile, poiché non farlo «sarebbe come creare un museo dell’Olocausto e non dire che a pensarlo e realizzarlo furono i nazisti»? 
Alla fine hanno deciso di mostrarle, ma ridotte quasi a fototessera e in un locale semi-nascosto.
La vera differenza, evocando la Shoah, è che non sono passati 60 anni ma appena 10; che il museo viene costruito sul luogo stesso dove l’orrore si è consumato e, soprattutto, che l’intero processo della sua realizzazione è cominciato mentre famiglie e parenti delle vittime erano afflitti da una ferita ancora aperta e sanguinante. Già  a partire dal suo nome, infatti, il National September 11 Memorial & Museum, in costruzione a Ground Zero, inciampa nelle sue contraddizioni. Quasi un ossimoro, come fa osservare al New York Times James Gardner, grande custode di tutti i musei, le biblioteche presidenziali e gli archivi di legge degli Stati Uniti: «I musei servono a farci capire il passato, i memoriali invece a ricordare e a evocare emozioni in chi li visita: sono due funzioni antitetiche».
Eppure è proprio questa la quadratura del cerchio, che si è trovata ad affrontare Alice Greenwald, direttrice del nuovo museo, obbligata a onorare i morti e i sopravvissuti; conservare un sito archeologico e i suoi reperti, compresi reperti umani; ricostruire la storia e spiegare ciò che non si può spiegare; parlare a cento pubblici diversi. 
«A chi apparterrà  la verità  del museo?», si è chiesta Sally Regenhard, che tra le macerie della Torre Nord, al World Trade Center, ha perso Christian, il figlio pompiere. Che è poi la madre di tutte le domande, se l’oggetto della contesa è ancora lava incandescente. Quando a Berlino, Daniel Libeskind finì il suo splendido Museo Ebraico, ci vollero due anni e mezzo di polemiche e dibattiti prima di decidere cosa metterci dentro: ci si poteva limitare a raccontare il contributo decisivo e il ruolo centrale degli ebrei nella Storia politica, culturale ed economica della capitale tedesca? E quanto spazio avrebbe dovuto occupare l’Olocausto, in una città  che allo sterminio degli ebrei d’Europa ha già  dedicato un memoriale, un centro d’informazione, una Topografia del terrore e decine di altre iniziative? Per fortuna, fu la stessa architettura di Libeskind a mettere (quasi) tutti d’accordo, con la sua stanza della Shoah, un luogo buio, freddo e angosciante dalle pareti altissime, che vi gela il sangue e vuole rievocare i lager nazisti.
A Ground Zero il compromesso è molto più complicato. Suonano conferma le lunghe discussioni preliminari, che Greenwald ha promosso con 25 sopravvissuti, 55 residenti della zona e persone della comunità  degli affari, 12 rappresentanti di poliziotti e pompieri, 9 esponenti di professioni religiose o etnie, 78 specialisti di poli museali, 8 funzionari dei servizi sociali, 60 dipendenti della fondazione del Memorial & Museum. Dibattiti mai sereni, spesso resi solforosi da risentimenti di classe, divisioni politiche, spaccature campanilistiche: i newyorchesi contro gli altri, le famiglie dei pompieri contro quelle dei broker di Wall Street, gli intransigenti contro quelli aperti al compromesso.
E per quanto Greenwald si sia guadagnata la stima e il rispetto dei più, per tatto e professionalità , le decisioni del board da lei presieduto rimangono aperte alle contestazioni. Così, 17 famiglie delle vittime hanno fatto ricorso in tribunale contro il Comune, per chiedere la revoca del piano che prevede di seppellire nel sottosuolo del museo 14 mila resti umani non identificati: saranno protetti da un muro e accessibili unicamente ai familiari delle vittime. Il visitatore potrà  solo leggere all’esterno un’iscrizione di Virgilio: «Nessun giorno vi cancellerà  dalla memoria del tempo». Ma a mandare in bestia la signora Rosaleen Tallon, sorella di Jean, un altro pompiere morto nella Torre Nord, sono soprattutto i portachiavi da 40 dollari con incisa la stessa frase, che saranno in vendita nel gift-shop del museo: «Disgustoso, o no?».
Controversie e mediazioni hanno accompagnato ogni passo: cosa mostrare e cosa nascondere degli oltre 4 mila reperti e disposizione della fondazione? Registrazioni di telefonate, quelle alle famiglie di chi era intrappolato nelle torri e quelle dalla cabina di pilotaggio con le ultime parole di Atta e compagni; video, pezzi monumentali degli edifici, foto e filmati dei poveretti che si gettarono dai grattacieli in fiamme. Materiale che può essere devastante: «Perfino noi che ci lavoriamo, quando vediamo alcuni reperti rimaniamo sconvolti», spiega Joseph Daniels, presidente della Fondazione.
Per non obbligare le persone a una marcia forzata attraverso l’orrore di quel giorno, ci saranno delle «uscite anticipate» lungo il percorso. I materiali più inquietanti verranno mostrati in spazi separati dove bisogna scegliere di andare. Ma la Storia, quella storia sarà  raccontata. Con la sensibilità  di oggi e senza precludere diversi modi di farlo in futuro. Dopotutto, ha detto Greenwald, «questo è un museo senza una fine».

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