IL MULINO DIGITALE “UN METODO CRITICO IN RETE CONTRO IL CINISMO DI OGGI”

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BOLOGNA – «La scommessa più difficile? Far capire a cosa serve un editore. Cinque anni fa forse non occorreva, oggi sì». Potrebbe sembrare un paradosso, specie se pronunciato nella grande sala del Mulino da cui sono usciti ministri, parlamentari e presidenti del Consiglio. Ma Andrea Angiolini, nuovo direttore editoriale al posto di Giovanna Movia, sintetizza così il senso della sfida. La sua nomina è nel segno della svolta, a cominciare dall’età  – 47 anni – che marca un ricambio generazionale alla guida del tempio bolognese. E anche per l’osservatorio elettronico da cui nell’ultimo decennio Angiolini ha guardato il mondo. Se però si insiste sul suo profilo digitale, il neo direttore rivendica l’antico viaggio tra i mugnai, dal primo stage a 26 anni in corso Maggiore alla collaborazione stretta con Giovanni Evangelisti, passando per la «nave scuola» della redazione, la «stagione straordinaria» trascorsa con Edmondo Berselli nella rivista Il Mulino, e ancora la pratica nell’editoria universitaria e nel consiglio editoriale. Un percorso da centauro, da «ibrido» dice lui, tra progettazione di collane, lavoro amministrativo ed editoria elettronica, che ora gli permette di manovrare una macchina complessa. Faccia pulita da boy scout («anche questo è uno dei filoni mulineschi »), una tesi in lettere classiche sulla
consolatio filosofica di Boezio e il format delle consolationesM senechiane, Angiolini accoglie un’eredità  difficile con prudenza, attento a non scontentare nessuno della turbolenta compagine professorale dalle molte anime. Alla domanda su cosa votasse nella prima Repubblica reagisce con esitazione («Democrazia Cristiana, talvolta Partito Repubblicano»), però poi aggiunge: «Nessuno al Mulino me l’ha mai chiesto. Conta quel che fai, non da dove vieni».
Qual è il senso della sua nomina?M «Il Mulino è un organismo complesso, e il momento è molto delicato: sia perché il mercato è in affanno, sia perché oggi gli editori sono costretti a ripensare il proprio lavoro. Al di là  del fatto anagrafico, forse hanno voluto scegliere una persona con una formazione un po’ eclettica, umanistica, editoriale e digitale insieme. Uno che sempre al Mulino ha fatto mestieri diversi e a un certo punto ha guardato al digitale come la chiave per allargare i contenuti e i servizi e per ripensare l’organizzazione interna. Senza massimalismi né titubanze».
Voi siete stati privilegiati dall’avere un pubblico universitario, il più alfabetizzato sul piano tecnologico.
«Non c’è dubbio, anche se non chiuderei il Mulino nel recinto dell’university press. Oggi la forza di un editore deriva dalla pluralità  delle sue proposte editoriali. E il Mulino può vantare molti tasti».
Ma il grosso del fatturato vi arriva dal mercato universitario.
«Quasi la metà  proviene dalla manualistica. Però poi ci sono le monografie di ricerca e c’è la varia, che è sempre una parte importante della casa editrice».
Il contesto accademico internazionale è stato quello che vi ha immesso nella scena digitale.
«La spinta venne da lì. Oltre dieci anni fa cominciammo a ricevere molte proposte da grandi enti internazionali che erano “aggregatori di contenuti”. Volevano gli articoli delle nostre riviste: oggi sono una sessantina, tra scienze sociali e discipline umanistiche. Noi replicammo con una diffidenza indiana: forse sarà  il caso che, prima di cedere i contenuti, diamo un’occhiata a questi servizi. E questo ci costrinse a studiare un nuovo mondo».
E cosa vedeste?
« Cambiava il modo di comunicare
la cultura. Nascevano nuove platee, o meglio cambiavano i bisogni dei lettori e occorreva attrezzarsi con forme nuove. In Italia tutto questo si vedeva ancora poco».
Decideste di mettere voi in rete le vostre riviste, scaricabili a pagamento.
«La nostra scelta fu quella di servire direttamente le università  italiane. Nel 2004 creammo la nostra collezione digitale di riviste, cinque anni più tardi mettemmo in rete le monografie di ricerca. E inoltre abbiamo circa 500 e-book, presenti nelle principali piattaforme. Anche i fatturati ci hanno premiato: oggi nell’editoria elettronica siamo di gran lunga al di sopra della quota media di mercato, che è circa l’1 per cento».
Le vostre collezioni digitali rappresentano un patrimonio importante per la ricerca. E ora state lavorando per venderle
a l –
l’estero.
«Sì, stiamo negoziando un accordo con l’editore Casalini, che vende pacchetti di riviste ai mercati americano, tedesco e di lingua spagnola. Le università  statunitensi guardano con molto interesse a questo accordo».
Ma negli ultimi anni l’attenzione delle stesse università  per la nostra produzione in ambito umanistico è andata declinando.
«Questo potrebbe dipendere dal
mainstream
internazionale, che cambia i punti di riferimento. Faccio un esempio nel campo delle scienze sociali: se l’economia diventa solo econometria, fatalmente si riduce lo spazio per l’economia industriale, una cosa di importanza decisiva per il
nostro paese. Credo che il Mulino debba continuare a riflettere sui passaggi essenziali della società  italiana, senza rinunciare a confrontarsi con la produzione internazionale
».
Lei prima diceva che rifiutaste la proposta di vendere contenuti a banche dati internazionali. Tra queste c’è JStor, che è uno dei più importanti archivi digitali della letteratura scientifica, soprattutto per le discipline umanistiche. Non è stato un errore rimanerne fuori?
«No. Sul piano del business ci facevano concorrenza a casa nostra. Loro volevano il
full text,
cioè il testo pieno degli articoli delle nostre riviste, da vendere in tutto il mondo, incluso il nostro paese. Noi preferiamo gestori che arrivino là  dove noi non arriviamo».
Sul piano del business è comprensibile. Ma da un punto di vista culturale, significa stare fuori da una banca dati consultata dagli studiosi di tutto il mondo. Un indiano o un cinese vanno su JStor e non trovano i saggi del Mulino.
«Ma siamo presenti su molte altre piattaforme a cui abbiamo venduto i metadati, ossia l’informazione sui nostri articoli. È questo per noi fondamentale: presentare il nostro catalogo là  dove sono i lettori».
Ma come riuscirete a conquistare visibilità  rispetto a JStor?
«Questa si chiama concorrenza. Ognuno faccia la sua gara, poi si vedrà ».
Che cosa vorrebbe cambiare in casa editrice?
«Mi piacerebbe che tornasse a muoversi come ai suoi esordi, ossia – diremmo oggi – come una start up: con la rapidità  di chi
deve sperimentare, sbagliare, correggersi, migliorare. E ancora: vorrei guardare alla produzione editoriale in modo integrato. Digitale e stampa vanno visti come un insieme fin dal principio, perché autori e lettori useranno sempre più entrambi. Se fino a oggi ci siamo concentrati sulla conversione, ora dobbiamo ripensare l’ideazione dei contenuti, dei formati editoriali, libri o articoli o altro».
Il Mulino, storicamente, è stato un laboratorio di idee che ha inciso sulla vita pubblica italiana. Oggi viviamo in un momento di sospensione della politica. E anche il governo dei tecnici proviene da altro tipo di istituzioni culturali. La sua nomina – la nomina di un dirigente più giovane che si muove in una prospettiva digitale – non può essere intesa come la presa d’atto da parte del Mulino di un appannamento della sua ragione sociale?
«No, mi viene da dire che non è così. Il Mulino rappresenta “un metodo critico” e oggi, per combattere cinismo e apatia, di questo sapere critico c’è disperatamente bisogno. Il nostro è un rinnovamento, non un cambiamento. Dobbiamo trovare forme diverse, nuove sensibilità  culturali e anche interlocutori differenti. Ma il ruolo del Mulino deve rimanere lo stesso».


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