Il mondo svelato del dio mercato

by Editore | 12 Giugno 2012 8:01

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Dopo avere, per quindici anni, costantemente rielaborato i suoi concetti e argomenti, Marx consegnò finalmente la sua ultima versione del Capitale. Il compito di continuare questo lavoro, incompiuto, spetta a coloro che vengono dopo. Due vie sono aperte. La prima è filologico-teorica. Per quali rotture e attraverso quali tappe Marx ha sviluppato la sua teoria? Quali sono gli strumenti concettuali che ha trovato negli storici, economisti e filosofi che lo hanno preceduto? Come li ha trasformati e integrati? Quali novità  ha apportato? Qual è la coerenza del tutto? Domande costantemente ravvivate da una migliore conoscenza dei suoi scritti e da nuove messe in prospettiva. L’altra via riguarda il valore di questa teoria, la rilevanza dei suoi concetti, la sua capacità  euristica e pratica. È la questione del vero e del falso. 
Queste due vie sono inseparabili. Separarle significa o attenersi al progetto, illusorio, di cercare la chiave di questa teoria di scienza sociale in una qualche filosofia che l’ha ispirata. Oppure ripiegare sull’idea, altrettanto discutibile, che essa abbia il privilegio di essere insuperabile nel suo ordine. Oggi si deve prendere atto che il capitalismo domina il mondo più che mai. Il popolo militante sembra incapace di superare la sua impotenza politica. Coloro che sono impegnati nel campo della teoria non hanno dunque altra scelta che continuare a scontrarsi con la sfida della scienza: lavorare per ridisegnare quel che sembra essere insufficiente o errato nella concettualità  di Marx, per capire meglio la nostra società  e la sua storia, e aprire una prospettiva politica. Questa è la via in cui, con molti altri, mi sono impegnato. 
La doppia natura del lavoro
Il capitalismo si dà , lo sappiamo, come una «economia di mercato». Marx dimostra che non è così: il rapporto di scambio nasconde la relazione di sfruttamento, da cui scaturisce l’accumulazione del capitale. Ma la dimostrazione non elimina questa pretesa dominante: tutto, fra noi, si risolverebbe infine in rapporti di scambio. Perché questa pretesa riesce a vincere? Marx ha risposto, almeno in parte, a questa domanda. Giunge alla risposta soltanto nel Capitale, e ne dà  una versione chiara solo nelle ultime edizioni, tedesca e francese. Scopre che prima di affrontare la struttura di classe, vale a dire il rapporto capitale/lavoro, cioè il modo di produzione capitalistico, è necessario analizzare il rapporto di produzione mercantile. Per parlare della struttura del capitale, bisogna aver definito la meta/struttura, il mercato. E questo è uno dei suoi principali risultati. Ne testimonia il bilancio che traccia alla fine del capitolo 5, dove distingue retrospettivamente i due momenti successivi della sua analisi. Quello della «produzione mercantile», come unità  di «lavoro utile» e di «lavoro creatore di valore» su un mercato, discusso nella Prima sezione. E quello della «produzione capitalistica», dove questa stessa unità  diventa unità  del «lavoro utile» e del «lavoro creatore di plusvalore», discusso nella Terza sezione. 
Nei Grundrisse, Marx cominciava con il denaro, per dimostrare che non è possibile dedurre l’accumulazione del capitale dalla circolazione monetaria. Nel Capitale, comincia in modo molto diverso. Non dal denaro o dalla superficie o dall’apparenza, né dalla «circolazione semplice» (come dice ancora nella versione del 1867). Comincia con la merce, da cui deduce il denaro. Ma «la merce» non è solo la cosa prodotta, è il rapporto sociale di produzione: è la «produzione mercantile», la pura logica di una «economia di mercato», considerata in se stessa, prima della logica della produzione capitalistica. Si tratta infatti del capitale, ma astrattamente considerato, prima del rapporto di classe: si tratta del capitale considerato non nella sua struttura di classe, ma nella sua metastruttura mercatile immanente. 
Immensa rivoluzione teorica, rispetto all’economia classica. Nella prima sezione (che manca significativamente negli scritti dell’economia classica), Marx considera questa metastruttura di per sé, come matrice allo stesso tempo economica e giuridico-politica della società  borghese. Egli mostra come, in questa logica di produzione mercantile, i partner sono trattati come presumibilmente liberi, uguali e razionali. Secondo il «pregiudizio di uguaglianza» che Aristotele, vivendo ai tempi della schiavitù, non poteva prevedere. E secondo la razionalità  che definisce la relazione mercantile tra valore d’uso e valore. Questo è il senso della stesura finale del primo capitolo, in cui l’idea di una contraddizione tra il valore e il valore d’uso è scomparsa da questo contesto metastrutturale.
In cerca del profitto
Naturalmente, lo vedremo, è la struttura a porre la metastruttura, e a imporle le sue condizioni. È il capitale a porre il mercato. Il capitale produce non solo le merci, ma il rapporto di produzione mercantile stesso, e lo universalizza. Ma, per parlare di produzione mercantile in quanto tale, non è necessario possedere il concetto di capitale. Basta analizzarla come tale, come presupposto della «società  borghese», nella sua pretesa di essere un ordine sociale di mercato. Marx quindi prima la espone. Poi ne fa la critica interna.
Quale critica? Nella pura logica mercantile di produzione, la relazione libero-uguale e razionale risulta posta come un ordine naturale universale. Abbiamo liberamente fatto un patto: quello di sottometterci a una legge che si impone su di noi come una legge di natura. Questo è, l’alienazione: questo «atto comune», originario, che Marx analizza nel capitolo 2. Abbandoniamo la nostra potenza alla bestia, al vitello d’oro. Ci espropriamo noi stessi della nostra libertà  comune. Della nostra capacità  di coordinarci liberamente attraverso piani concordati tra tutti noi. Porre così il mercato come un ordine naturale al quale ci sottomettiamo liberamente costituisce ovviamente una contraddizione performativa. Una sublimazione del «contratto di schiavitù».
Marx gli oppone, quindi, immediatamente il suo contrario: «Rappresentiamoci una società  di uomini liberi, che possiedono insieme i mezzi di produzione, e si coordinano secondo un piano concertato». Queste sono le sue parole. Il progetto del libro è immediatamente fissato: passare dall’epoca dell’alienazione mercantile a quella della pianificazione concertata. 
La realizzazione teorica di questo progetto presuppone che ci si sposti dalla metastruttura alla struttura, vale a dire che arriviamo a considerare questo mondo «reale», questo rapporto di classe, dove la forza-lavoro salariata funziona essa stessa come una merce, mentre allo stesso tempo il lavoratore ne viene dichiarato il libero venditore. In queste condizioni, tutto risulta «mercificato», secondo una logica che non è solo quella dello scambio mercantile ma anche, contraddittoriamente, quella dello sfruttamento capitalista. Il capitalismo, quindi, si analizza come strumentalizzazione del mercato: la merce forza-lavoro è lo strumento del capitale in cerca di profitto.
È in questi termini che Marx, nella Terza sezione, definisce la struttura del capitale, la sua struttura di classe. Procede poi, nelle sezioni 4 e 7, all’esame della tendenza storica di questa struttura sotto la sferza della competizione capitalista: la tendenza a una progressiva concentrazione delle grandi imprese, in cui dominerà  non il mercato, ma l’organizzazione pianificata. 
La libera sottomissione
Alla fine, resta solo un’azienda per ramo. Si danno allora le condizioni perché la classe operaia, agguerrita e illuminata da una lotta secolare, numerosa, istruita e unita dal meccanismo della produzione organizzata, diventi capace di appropriarsi collettivamente dei mezzi di produzione, di abolire la proprietà  privata e il mercato, e di organizzare la vita economica secondo piani concordati. Si riconosce qui il grande mito del XX secolo, con la sua parte di verità  e la sua parte di disastro. Ed è da questa verità  e da questo disastro che dobbiamo ripartire. Poiché non abbiamo il diritto di ignorare che alla logica mercantile della produzione – strumento del capitalismo – Marx oppone l’abolizione della proprietà  privata e del mercato e la loro sostituzione con la pianificazione concertata. Stranamente, Marx non si pone mai la domanda se si possa ipotizzare di sottoporre il mercato a un ordine pianificato. Ai suoi occhi, superare il capitalismo presuppone abolire il mercato. Il che non è senza relazione col corso successivo della storia, il «socialismo reale». 
Si è dunque costretti a chiedere dove è l’errore. Non è così facile identificarlo. Ancora meno ricostruire Il Capitale su una base che segni la necessaria rottura con l’errore, pur mantenendo la sua forza alla verità  di questa teoria. Ciò che conta infatti è meno quell’eccesso – la tesi «abolire il mercato», che si potrebbe correggere – che le sue condizioni epistemiche. La riflessione filosofica ci può aiutare. Non il riferimento a una presunta filosofia di Marx. Ma una critica filosofica della costruzione teorica del Capitale.
Partiamo dalla «contraddizione performativa». Chiaramente, ci si contraddice quando ci si dichiara liberi sotto una legge che si impone su di noi, la presunta legge del mercato. In realtà , siamo liberi solo nella misura in cui ci conformiamo a una legge che abbiamo stabilito in comune. Ma perché dovremmo scegliere un ordine pianificato piuttosto che un ordine mercantile? Siamo qui rimandati alla coppia mercato/organizzazione, di cui Marx è il vero inventore, nel senso che ne ha fatto il cardine di una teoria della modernità . Lo scopriamo da Grundrisse. Quando la produzione diviene complessa, scrive Marx, «ci deve naturalmente essere mediazione». E aggiunge che ci sono due mediazioni: il «mercato», che vira in capitale, e una «organizzazione» del lavoro nella quale il fine è posto collettivamente, cioè la via che egli propone. 
Ci sono infatti, come si dice oggi, due modi primari di coordinamento su scala sociale: il mercato e l’organizzazione. È stato Marx che ne ha fornito la definizione: il mercato costituisce un equilibrio a posteriori tra produzioni private concorrenti; l’organizzazione (o il piano) un equilibrio a priori tra mezzi e fini nel contesto di un’unica proprietà . Marx fa di questo schema binario il suo «filo conduttore», analizzando la storia moderna come il lungo cammino dal primo alla seconda, in termini di una dialettica storica: dal mercato capitalistico all’organizzazione socialista, post-mercantile.
Una razionalistà  limitata
Oggi i marxisti hanno naturalmente preso le distanze da questa grande narrazione. E generalmente ritengono che l’obiettivo non sia quello di abolire il mercato, ma di padroneggiarlo. Queste considerazioni sono ragionevoli, ma non rendono conto di sé stesse. Poiché questa deriva storicista-socialista con cui termina la parola di Marx si collega a un errore iniziale, che deve essere identificato, se vogliamo essere in grado di ricostruire il patrimonio teorico di Marx e di farne uso analitico e politico. Tutto, mi sembra, è da riprendere. Se, almeno, ci si chiede che ne è delle classi sociali, della lotta politica di classe, dello stato, dell’ideologia, del sistema-mondo, di socialismo e comunismo. A partire dal mercato, preso come un presupposto della società  moderna, Marx concede troppo al liberalismo. Perché, di per sé, il mercato non è un assunto razionale, nel senso economico del Verstand. Ha solo «razionalità  limitata». E lo stesso vale per il piano. Ciò che è razionale, non è né il presunto libero mercato, né il presunto piano concertato: ma una certa co-imbricazione di mercato e piano da definire.
Da solo, il mercato non è ragionevole, nel senso politico della Vernunft. Nessuno può legittimamente contrattare con un altro, vale a dire fare un uso pratico del mondo, affermando direttamente «questo è mio». Questo è il famoso argomento kantiano del «comunismo originario». Dobbiamo in primo luogo fissare di comune accordo i nostri principi per l’utilizzazione del mondo. Ma questo libero uso da parte di tutti suppone correlativamente la libertà  tra individuo e individuo. La libertà  degli antichi e quella dei moderni si implicano reciprocamente. Co-imbricazione razionale e co-implicazione ragionevole del fra-tutti e del tra-ciascuno. Questa è la premessa della forma moderna di società , con la quale ci dichiariamo liberi, uguali e razionali. Ecco, nella sua ambiguità  e indeterminatezza essenziale, la pretesa che i moderni avanzano in comune. La metastruttura è più complessa di quanto pensava Marx. Ha due poli, il tra-ciascuno e il fra-tutti; e due facce, quella razionale del piano e del mercato co-imbricati, e quella ragionevole della co-implicazione tra la libertégalité civica (dei cittadini) e la libertégalité civile (dei privati). In questa figura metastrutturale si può giustamente identificare un concetto di «spirito oggettivo» in senso hegeliano: la ragione comune.

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