IL DUELLO ITALIA-FRANCIA DAL CINEMA ALLA POLITICA

by Editore | 12 Giugno 2012 7:01

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Il luogo comune è in agguato ad ogni riga, ad ogni capoverso, ad ogni pagina, figurarsi in un libro, quando si scrive dei rapporti tra paesi vicini, tra popoli confinanti dall’inizio dell’umanità . Forse anche grazie alla sua dose di sangue normanno, Anais Ginori ha evitato le frasi fatte, le banalità , scrivendo Falsi amici (edito da Fandango) in cui tratta delle “relazioni pericolose” tra Francia e Italia. Come difesa, a partire dal titolo e dal sottotitolo, ha usato con intelligenza l’ironia. La sola chiave per affrontare con leggerezza un argomento che può essere pesante e pedante, avendo alle spalle una biblioteca imponente, in cui riposano umori cangianti di secolo in secolo, scanditi dalle guerre, dalle invasioni, dalle influenze politiche e artistiche, sociali e gastronomiche, dalle emigrazioni, dall’economia. Un rosario millenario di insulti e di abbracci. Di umiliazioni e di omaggi. Di amore e di complessi (nei due sensi: superiorità  e inferiorità ) che si alternano adeguandosi alla storia.
Insomma troppa roba da condensare in neppure duecento pagine. Ma la spericolata, avventata giovane scrittrice che ha osato affrontare l’argomento non cade nella trappola. È accorta. L’equilibrio tra i cromosomi ereditati dalla già  citata ascen-
denza (lato materno) normanna e i cromosomi ereditati dall’ascendenza (lato paterno) ligure, l’hanno senz’altro aiutata a restare a galla, a non affogare nelle frasi fatte, a dosare in giusta misura pregi e difetti delle due genti. Che sono poi le due metà  della sua persona.
Si dice “une réponse de normand” (purtroppo un luogo comune!) per definire una risposta furba, abile, che non compromette chi la pronuncia. Non ricorro a quella battuta per insinuare che Anais Ginori cerca di barcamenarsi, dando a tratti al suo racconto i ritmi di un
pamphlet equanime nel suddividere accuse, rimproveri o sarcasmi. C’è semmai, in lei, l’agilità  intellettuale e il tocco sentimentale ereditati dal nonno calato in Italia da Oltralpe spinto dalla curiosità  professionale che adesso anima la nipote, insabbiata a Roma. Un’agilità  dovuta anche alla cura dello stile e del dettaglio, che distingue le donne nel giornalismo d’oggi. Nel nostro caso penso alla flessibilità  dello sciatore che nello slalom evita, aggira i paletti sulla pista, e arriva incolume a fondo valle. I paletti sono le due anime di chi scrive
Falsi amici.
Il libro comincia con una premessa che fa sperare in un racconto familiare. Una storia che ci consentirà  di vedere nell’intimità  una famiglia francese approdata a Roma, negli anni Sessanta, con molti pregiudizi favorevoli e al tempo stesso consapevole di dovere affrontare una terra descritta spesso come geniale ma infida. Un paese per eccellenza dei pugnali, come ci spiega il “milanese” Stendhal. Ed è infatti con “una pugnalata alla schiena” che l’Italia ha aggredito la Francia già  sconfitta dai tedeschi, venticinque anni prima dell’arrivo dei Nobécourt a Roma. Ho conosciuto Jacques, il nonno di Anais, e non credo proprio che durante i dieci anni di soggiorno romano abbia sofferto di incubi. Era in partenza un germanista ed era incantato dall’idea di vivere in una società  esotica, per lui piena di sorprese. Adorava i monumenti di Roma e arrivava persino ad entusiasmarsi, con una punta di masochismo, per la politica romana di quegli anni. Le delusioni forse le digeriva in silenzio. Era stato catapultato in Italia dal suo giornale, e Solange, la moglie psicanalista, l’aveva seguito malvolentieri. Soffriva per la lontananza da Lacan, il suo maestro, al punto che ogni lunedì prendeva il Palatino che la riportava a Parigi fino al week-end successivo.
È in Piazza Navona, dove abita, che la famiglia francese si smarrisce, si disperde, si lascia via via abbagliare dalle luci della lunga spiaggia mediterranea. Ci aspettiamo, a quel punto, di infiltrarci nella famiglia di intellettuali, e di spiare l’incontro o lo scontro tra lo spirito gotico della Francia e lo spirito barocco di Roma. Da un lato Jean Calvin e Franà§ois Rabelais, che riassumono la prima, dall’altro Gioacchino Belli e Trilussa, belle
anime della seconda. Non si tratta di un accoppiamento tra esquimesi e congo-lesi, ma il laboratorio non manca di interesse. Nonostante esista già  un incredibile numero di nonni e bisnonni, e di altrettante nonne e bisnonne, nelle rispettive genealogie, italiane e francesi, con una netta superiorità  italiana, poiché i nostri emigrati hanno colmato per più di un secolo i vuoti demografici dalla Guascogna alla Provenza. La vicenda dei Nobécourt ha una sua peculiarità , avviene in senso inverso e segue una tradizione, in cui prevalgono cultura e amore.
Anais Ginori non asseconda la nostra curiosità , troppo invadente, non ci consente di ficcare il naso in un’intimità  che non ci riguarda, e, con una bacchettata, ci riporta all’attualità , al presente, di cui lei, cronista politica, si occupa quotidianamente. La premessa che sembrava carica di promesse, in cui si racconta la calata in Italia della tribù dei Nobécourt, e la sua dispersione in varie famiglie indigene, sembra avere il semplice obiettivo di spiegarci come lo sguardo dell’autore sulle due realtà  sia ora francoitaliano e ora italo-francese. È pendolare. Non lacerato, questo no. Non è del resto tempo di drammi tra i due versanti delle Alpi. Gli emigranti italiani sono diventati turisti e le ambizioni universali dei francesi ereditate dalla grande rivoluzione riposano nei libri di storia. Le periodiche tenzoni non solo psicologiche di una volta sono state declassate a semplici bisticci. Alimentate da vecchie e nuove gelosie da campanile. Uomini politici arroganti, permalosi o frustrati vivono malintesi dovuti soprattutto alla loro insipienza.
È gustosa la cronaca, in chiave più sarcastica che umoristica, della passata stagione politica, tesa a dimostrare come a intervalli regolari riemerga un certo nervosismo tra i due paesi. Sono baruffe che, visti i personaggi principali, Sarkozy e Berlusconi, ricordano (e Anais Ginori ne accenna) il remoto passato in cui i nomi delle maschere italiane, Pantalone, i Capitani, gli Zanni, erano così conosciuti, popolari, da divenire termini di paragone corrente. Nei suoi
Mémoires
Margherita di Valois notava che quando, per ordine di Enrico II, Bussy d’Amboise fu costretto ad abbracciare il suo nemico Quèlus, la cosa sembrò un’“embrassade à  la Pantalonne”. Quattro secoli dopo invece di “à  la Pantalonne” si diceva “à  la Berlusconi”. Berlusconate invece di Pantalonate. E da noi Sarkozy era sinonimo di spocchia. Ma vale la pena leggere Falsi amici dove tutto è ben raccontato.

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