Il Dragone cinese ha corso troppo. Prepariamoci alla frenata
Ogni anno, per gli ultimi due decenni, gli esperti non hanno fatto altro che ripetere che l’economia cinese era sull’orlo dell’abisso, minata dal suo interno da enormi squilibri e da scelte politiche sbagliate. Puntavano il dito su prestiti a rischio, pessime banche, aziende inefficienti di proprietà dello Stato e svariate bolle immobiliari. In qualche modo, però, nessuno di questi difetti è riuscito a far deragliare la crescita cinese, che ha registrato in media un sorprendente 9,5 percento annuale per trent’anni.
Ruchir Sharma, a capo del Fondo per i mercati emergenti della Morgan Stanley, adotta un’ottica diversa, e più convincente, nel suo nuovo libro Breakout Nations, spostando l’attenzione non sui fallimenti della Cina, bensì sui suoi successi: «La Cina sta per affrontare una fase naturale di rallentamento che cambierà l’equilibrio del potere globale, dalla finanza alla politica, togliendo il vento dalle vele di molte economie che navigano nella sua scia». E già si accumulano le prove a sostegno di questa teoria.
Se la crescita cinese appare straordinaria, esistono tuttavia dei precedenti storici. Giappone, Corea del Sud e Taiwan erano cresciuti tutti intorno al 9 percento annuale per circa vent’anni, per poi rallentare. Molti pensano che la Cina seguirà le orme del Giappone, la cui economia entrò in crisi negli anni Novanta per poi raffreddarsi notevolmente, e da allora è in attesa di una rinascita. Lo scenario più realistico, tuttavia, è quello del Giappone degli anni Settanta, quando la crescita economica della prima tigre asiatica rallentò dal 9 al 6 percento circa. La Corea e Taiwan seguirono la medesima traiettoria.
Quale fu la causa di questi rallentamenti? Il successo. Diventa sempre più difficile continuare a crescere a tutta velocità quando l’economia si espande, favorendo lo sviluppo della classe media.
Calcoli alla mano, Sharma conferma: «Nel 1998, per poter far crescere del 10 percento la sua economia, all’epoca equivalente a un trilione di dollari, la Cina dovette allargare le sue attività economiche di 100 miliardi di dollari e accaparrarsi il 10 percento delle risorse industriali mondiali — vale a dire tutte le materie prime, dal petrolio al rame, all’acciaio. Nel 2011, per far crescere alla medesima velocità la sua economia stimata attorno ai 5 trilioni di dollari, la Cina ha dovuto allargare le sue attività di 600 miliardi di dollari all’anno, risucchiando più del 30 per cento della produzione globale di materie prime».
Oggi, tutti i fattori che hanno sospinto l’economia cinese in avanti cominciano a dar segno di contrazione. L’anno scorso la Cina è diventata una nazione urbanizzata, poiché la maggioranza della sua popolazione vive nelle metropoli. Il tasso di migrazione urbana si è ridotto a 5 milioni di persone all’anno. Ciò significa che il famoso «surplus di manodopera» cinese ben presto si esaurirà . Nel decennio corrente, solo 5 milioni di persone si aggiungeranno alla forza lavoro attiva, un calo brusco dai 90 milioni del decennio precedente. E grazie alla politica del figlio unico, ci sono oggi meno cinesi pronti a prendere il posto dei lavoratori pensionati.
Il quadro tratteggiato da Sharma è condiviso in larga misura dal governo cinese. Da anni la leadership di Pechino si prepara al rallentamento dell’economia. Il primo ministro Wen Jiabao sosteneva nel 2007 che l’economia cinese era «squilibrata, scoordinata, instabile e insostenibile». Questa settimana ha ripetuto il suo monito, invocando un’azione di stimolo da parte del governo.
Sotto alcuni aspetti, la Cina ha ancora molte frecce al suo arco. La banca centrale può abbassare i tassi di interesse e il governo è in grado di spendere. Ma le frecce sono ormai numerate. Sharma afferma che sulla carta il debito cinese, per rapporto al Pil, tocca un modesto 30 percento, ma quando si vanno a sommare i debiti delle grandi imprese cinesi, molte delle quali di proprietà statale, i numeri si fanno allarmanti. Il governo è pronto a spendere di più per le infrastrutture, ma questi investimenti produrranno profitti decrescenti. I consumatori cinesi spendono di più, è vero, ma in un Paese senza ammortizzatori sociali, e con una popolazione sempre più vecchia, il tasso di risparmio resterà elevato. Sharma prevede tempi difficili per quei Paesi che si sono agganciati alla crescita cinese — dall’Australia al Brasile — quando la domanda di materie prime comincerà a calare. L’analista annuncia inoltre una riduzione nel prezzo del greggio, che giunge proprio al momento di massima espansione dell’estrazione da sabbie bituminose e che metterà in difficoltà gli Stati produttori di petrolio in tutto il mondo. Per la Cina, Sharma suggerisce che un tasso di crescita attorno al 6 percento non dovrebbe impensierire più di tanto i cinesi, si tratta sempre di un risultato invidiabile. Il Paese oggi è più ricco, pertanto un rallentamento della crescita appare accettabile. Ma non dimentichiamo che il regime autoritario cinese trova legittimazione nella crescita vertiginosa, e in mancanza di quella, i problemi economici della Cina potrebbero trasformarsi in problemi politici.
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