Il downsizing della cittadinanza

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«Non c’è mai stata un’epoca che non si sia sentita, nel senso eccentrico del termine, “moderna” e non abbia creduto di essere immediatamente davanti ad un abisso. La lucida coscienza disperata di stare nel mezzo di una crisi decisiva è qualcosa di cronico nell’umanità ». Così Walter Benjamin, in un frangente decisivo della storia del XX secolo. A distanza di quasi un secolo dalla stesura di questa annotazione, verrebbe quasi da dire che non se ne può più di sentir parlare di crisi. Non solo nel senso che non se ne può più delle conseguenze che ad essa si addebitano in termini di effetti politici e sociali, ma perfino del fatto che in fondo, a ben vedere, sembra quasi che quello di «crisi» sia più un concetto di copertura, o di rimozione, che non un concetto di svelamento, grazie al quale, cioè, sia possibile rendere visibile qualcosa che prima non si vedeva. Sennonché, è subito evidente che la forma culturale della crisi è uno stimolo insostituibile per l’intelligenza politica. Mai, come nei periodi di crisi, si assiste a una proliferazione di discorsi, di prese di posizione, di diagnosi e di prognosi che riguardano l’intero assetto della nostra vita in comune. La crisi è uno dei principali content provider dell’intelligenza critica e, come tale, un serbatoio apparentemente inesauribile di prese di parola che impediscono la rassegnazione. 
Ed è innanzitutto per questo che la crisi, come concetto e come evento, risulta indispensabile: evitare la paralisi. Se è lecito poi parlare di «crisi del concetto di crisi» ciò è dovuto al fatto che il tema «crisi» non può più essere trattato nello stile naà¯f della tradizione moderna, la quale da tempo è divenuta nient’altro che l’ornamento nostalgico di un sapere ordinario e conservatore. Il discorso sulla crisi si deve ora basare sul fatto che l’espressione «crisi» non indica un oggetto su cui si possono formulare asserzioni dirette, siano esse edificanti o accusatorie, indica piuttosto un concetto container che raccoglie complessità  impossibili da abbracciare con un solo sguardo.
Non è, dunque, la crisi, il problema, bensì i suoi contenuti. E sul contenuto di questa crisi non sembra avere dubbi il bel volume collettaneo curato da Alessandro Simoncini pubblicato per i tipi della milanese Mimesis. A partire dal titolo: Una rivoluzione dall’alto. A partire dalla crisi globale; il quale cita sì un’espressione d’antan, attribuita prima a Bismark e recuperata a più riprese dalla cultura politica del XX secolo (da ultimo, Etienne Balibar in un intervento su Liberation del novembre scorso), ma ha l’indubbio merito di dirottare la nostra attenzione sul grande assente dai dibattiti contemporanei: il potere. 
I contributi diversissimi che compongono il volume (i contributori hanno «anime» disciplinari, a loro volta, diversissime, oltreché una significativa varietà  di prospettiva politica: Roberto Esposito, Sandro Mezzadra, Massimiliano Tomba, Franco Berardi Bifo, Anselm Jappe, Riccardo Bellofiore, Alex Foti, Aldo Pardi, Damiano Palano) possano riconoscersi in un intento comune: il primo segno/effetto di questa crisi è di spoliticizzare l’orizzonte di comprensione di ciò che accade, in particolare delle decisioni con cui si reagisce a processi che sembrano sempre troppo più grandi delle forze politiche in campo. Ecco, proprio ciò che oggi si presenta come reazione obbligata, viene risospinto, a partire dall’acuta diagnosi contenuta nell’introduzione, nell’alveo di una razionalità  di lunga durata che non ha nulla di politicamente neutrale. C’è qualcosa, nella neutralizzazione politica dei processi economici contemporanei, che sfugge perfino all’acuta diagnosi schmittiana dell’inizio del secolo scorso: lo stigma di superfluità  che viene decretato da decisioni di governo che sono rivolte a segmenti crescenti di popolazione globale. Ora la superfluità  non riguarda più solamente i marginali, ma interessa anche chi, nel cuore del sistema, si è da tempo abituato ad una condizione di benessere – così recita il mantra estatico delle agenzie decisionali sub e sovranazionali. Ciò che è certo, però, è che la superfluità  non è uno status politicamente neutrale. È proprio ad essa, e non solo al malaffare di una classe dirigente fuori controllo, che dev’essere addebitato lo svuotamento della democrazia.
Il downsizing della cittadinanza va di pari passo con la nuova alleanza tra capitalismo e autoritarismo. La ricodifica del capitalismo nel senso delle figure autoritarie avviene nel linguaggio esangue della «scienza economica», e non più in quello manifestamente sanguinoso dei plotoni di esecuzione. L’impressione è che qualche chiarimento, in fatto di crisi, potrebbe venire da un concetto adeguato di generazione. È chiaro a tutti, infatti, che quando la «crisi» diviene il tema dominante, si attinge sempre ad un repertorio lessicale che non può fare a meno di riferirsi alla rottura temporale. Il problema generazionale nasce esattamente così, come riflesso banale di una coscienza temporale azzerata. Forse, senza guardare troppo per il sottile, bisognerebbe cominciare ad intendere con questo termine un segnale di discontinuità  nella prosecuzione delle regole di apprendimento condivise. Se valesse questa opzione, si potrebbe dire di appartenere ad una generazione ogni volta che si fa parte di un gruppo che non vuole più imparare le stesse cose della generazione precedente. 
Questa è certamente una traccia riconoscibile degli interventi critici del testo: alle generazioni che non sanno più apprendere, né disapprendere, si devono, al contrario, sostituire quelle generazioni che dell’apprendimento hanno fatto una forma di vita, e che, per quanto stressate fino all’inverosimile dall’erosione di tradizioni troppo recenti per essere date per scontate, hanno tutti gli strumenti per poter rinunciare a fare sempre la stessa cosa, a percorrere sempre lo stesso cammino, a voler cavalcare sempre nella stessa cattiva infinità .


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