Fede e scienza, storie di vocazioni parallele
Ogni anno, per lo meno in Italia, escono molti libri dedicati al rapporto tra scienza e fede. Questo argomento, considerato «caldo» e anche un po’ pruriginoso, per via di bufere mediatiche cicliche come le tempeste tropicali, tiene sempre desta l’attenzione di lettori ed editori. Non si può rubricare tale fenomeno come una semplice moda passeggera, anche perché le mode, di per sé, non spiegano nulla, un po’ come quando i bambini chiedono il motivo delle buone maniere da usare a tavola, e gli adulti rispondono «Si fa così e basta».
Occorre provare invece a sondare da vicino queste pubblicazioni. Esse, nella maggior parte dei casi, sono viziate da condizionamenti ideologici, da tensioni interne ed esterne che spingono a militare pro o contro qualcosa. Numerosi sono i libri scritti da scienziati laici che, con maggiore o minore buon senso, si dirigono contro un vero o presunto oscurantismo dilagante; altrettanti sono quelli scritti da uomini di chiesa o teologi, che a loro volta in buona o cattiva fede si rivolgono contro un vero o presunto scientismo dilagante; talvolta si leggono anche dibattiti aperti tra gli uni e gli altri, lettere incrociate in cui le posizioni si mescolano e si mediano a vicenda.
Un tentativo interessante in tal senso è probabilmente il libro-intervista di Philippe Harrouad, che ha incontrato Luc Montagnier, scopritore del virus dell’Hiv e Nobel per la medicina, e Michel Niaussat, monaco cistercense con vent’anni di esperienza come cappellano presso il carcere di Le Mans (Il Nobel e il Monaco. Dialoghi sul nostro tempo, traduzione di Monica Minati, Giunti 2012, euro14,50).
Un tentativo interessante, dicevamo, ma poco più: il libro è un dialogo franco e schietto, ma la sua guida è troppo «giornalistica» per arrivare là dove dovrebbe, e il «nostro tempo» resta in realtà soltanto nel titolo, mentre quel che passa per le pagine è l’atmosfera un po’ crepuscolare di due anziani combattenti di stanza in campi molto distanti.
In effetti, quando si parla di fede e di scienza, si tratta quasi sempre di dialoghi tra sordi. Rimane costantemente netta la sensazione di un profondo dissidio. Forse è proprio questa conflittualità latente a rendere un argomento come questo – decisamente per palati fini – tanto fortunato dal punto di vista massmediologico e non solo. L’incomunicabilità , da sempre, crea fazioni in lotta, e ciò produce effervescenza, fa spumeggiare il grigiume dei dibattiti sui quotidiani. Sono molto rari, invece, i casi in cui tale dissidio, tale scissione si esprime all’interno di una sola persona. Casi in cui il discorso scientifico e quello di fede escano, pur lacerati e tribolati, dalla medesima voce. Allora forse la ribalta è meno evidente, la voce è più sottile, meno roboante, magari più sofferta e partecipe: come sempre lontano dai riflettori si acquista una luminosità propria, che i riflettori non daranno mai.
Una di queste voci, oggi, è quella di Michael Heller, la cui cristallina limpidità è stata raccolta, tradotta e curata da Giulio Brotti, per confluire in un agile, piacevole volume, dalla copertina semplicissima e dal titolo inequivocabile: La scienza e Dio (La Scuola, pp. 175, euro 11). Basterebbe la biografia di Heller a riempire più di un tomo da enciclopedia: sacerdote cattolico, nato a Tarnà³w, in Polonia, nel 1936, cosmologo, filosofo, fisico, matematico, vincitore del discusso quanto illustre premio Templeton nel 2008, interamente devoluto al Centro di Ricerca «Nicolò Copernico» di Cracovia, da lui stesso fondato e dedicato, appunto, alla teologia e alla scienza naturale.
Quel che colpisce in Heller è innanzitutto il suo rifiuto del «concordismo», come dice Brotti, ossia la moda (questa sì) un po’ fastidiosa di liquidare faccende controverse con formule del tipo «Diciamo la stessa cosa, solo con parole diverse». Concordismo e persecuzione, d’altra parte, hanno lo stesso valore assoluto, cambia soltanto il segno. Rimuovere i problemi non serve, serve invece riconoscerli ed elaborarli con la dovuta onestà .
Ecco, leggendo l’intervista, si coglie molto bene la semplicità evangelica che quest’uomo straordinario è riuscito a raggiungere. Al di là di alcuni inevitabili ostacoli – e siano benedetti, gli ostacoli – la conversazione si distende lungo le pagine con estrema chiarezza, provocando tanto le corde della razionalità e del rigore, quanto quelle dell’emotività e del trasporto. Merito senza dubbio anche dell’intelligenza dell’intervistatore, che è riuscito a organizzare la mole del materiale in modo tale da renderla immediatamente fruibile anche al lettore non specialista.
Semplicità evangelica, dunque. In effetti non è facile fare scienza e farsi capire, soprattutto quando sono in gioco questioni di fede: Gesù non era uno scienziato e non ha lasciato istruzioni a proposito. Quindi? Heller racconta come questa sorta di schizofrenia che soffriva in gioventù, quando doveva sottostare ai dettami tomisti e tolemaici delle facoltà teologiche preconciliari, o quando doveva affrontare il dogma materialista della dittatura comunista, fu non tanto risolta, quanto rielaborata grazie a una vocazione specifica.
Come quella clericale, anche quella scientifica è una vocazione: il mistero del cosmo e della natura sollecita e stimola le intelligenze, esattamente come il mistero della fede. È un tema antico che ha accompagnato tutta la cultura europea nel Medioevo, ma che quando emerge nei nostri tempi si presenta con una veste nuova che spinge alla meraviglia: ma come, non eravamo nell’epoca del disincanto? Quale mistero?
Heller, che la scienza e la fede le ha vissute entrambe fino in fondo, spiega che non si tratta di estrapolare un senso estraneo alle pratiche della ricerca scientifica, ma che bisogna cercare il senso all’interno di quelle stesse pratiche. Non filosofia della scienza, quindi, ma filosofia nella scienza. Al contrario di tanti sedicenti esperti di bioetica, Heller non pone diktat moralisti alla ricerca, ma lascia che emerga la razionalità della scelta etica, nella convinzione che la realtà stessa abbia una sua coerenza che va compresa, non imposta o appiccicata in maniera accomodante.
Per questo uno degli «eroi» di Heller è Archimede, il quale non si accontentò dello schematismo platonico dominante ai suoi tempi, e mise in primo piano l’esperienza meccanica, per poi armonizzarla con la geometria. Parimenti, la cosmologia scientifica contemporanea, per lo meno dalla teoria del big bang in avanti, non può essere usata, secondo Heller, come argomento contro le questioni della fede, esattamente come sarebbe sciocco agitare le prime pagine della Genesi per zittire gli scienziati: non sono tanto due posizioni contrapposte, quanto due modalità di emersione di una razionalità profonda che la scienza e la fede sono chiamate a sostenere, custodire e diffondere.
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