Eppure il neoliberismo è finito
La storia non è finita con la caduta del Muro di Berlino e la rivoluzione liberale a cavallo tra gli anni Ottanta e i Novanta, contrariamente a quanto pensassero i numerosi lettori del suo più celebre libro. Francis Fukuyama, politologo americano, oggi in forza alla Stanford University in California, in questa intervista spiega invece quanto quella rivoluzione abbia finito per divorare i propri figli e ipotizza le vie d’uscita dell’attuale crisi: parlando dell’Occidente in trasformazione, ma anche della possibilità di una democrazia in Cina. Partiamo dalla crisi. Lei ha scritto ultimamente che occorre riportare l’equilibrio fra il mercato e lo Stato, equilibrio turbato dagli ultimi 25 anni di dominio assoluto del neoliberismo. Qual è il bilancio?
“Un bilancio positivo, ma non basta. Intanto, il mondo globale, aperto, che commercia ed è libero dai conflitti, di cui parlavano i teorici del neoliberismo è diventato realtà . Grazie a esso l’India e la Cina hanno fatto uscire dalla miseria centinaia di milioni di persone. Ma così come tutte le rivoluzioni, anche quella neoliberista ha finito per divorare i propri figli. Nel mondo finanziario si è giunti ai peggiori abusi. Abbiamo consentito che le banche crescessero troppo e non le abbiamo controllate. Il capitale finanziario si è comprato l’accesso alle decisioni politiche”.
E’ stato violato il principio del capitalismo, in base al quale per ogni rischio esiste un premio o una punizione?
“Sì. Dopo lo scoppio della crisi, e sto parlando del 2007-2008, il governo americano avrebbe dovuto nazionalizzare le maggiori banche, dividerle e venderle, e quindi porre dei limiti alla loro espansione, perché solo le banche minori possono rischiare senza compromettere la società nel suo insieme. Questo non è avvenuto perché le lobby finanziarie si sono dimostrate potenti persino in seno all’amministrazione democratica di Barack Obama”.
Il divario fra ricchi e poveri, soprattutto negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, è più profondo di quanto non sia mai stato.
“Infatti è la sperequazione dei redditi la base materiale della crisi. Negli Stati Uniti i guadagni della classe media si sono fermati negli anni Settanta, a causa della perdita di posti nelle fabbriche. E questo mentre un’enorme parte degli incassi dell’economia è andata ad arricchire i più abbienti. Così i governi, anche per mitigare il divario sociale che andava aumentando, hanno iniziato a finanziare le ipoteche sulle case, ma senza procedere a una ridistribuzione del reddito. In tal modo hanno consentito ai poveri di credere di essere in grado di comprarsi delle case, che in realtà non erano in grado di acquistare. In conseguenza è scoppiata la bolla. La crisi finanziaria dunque è un effetto del divario sociale”.
Forse è colpa dell’economia di mercato.
“Non necessariamente. L’economia di mercato può e deve essere equa, basta agire nella maniera giusta. Mi spiego: il mercato crea vincitori e vinti. Ma questo fatto può essere equilibrato da principi come “un uomo un voto”, oppure dal controllo democratico dei cittadini. Come è avvenuto durante le riforme del New Deal di Franklin Delano Roosevelt”.
Pensiamo troppo poco al bene pubblico, alla solidarietà ?
“Sì. Però ho una buona notizia. Stiamo uscendo dall’epoca neoliberista. Negli Stati Uniti il dibattito sulla disuguaglianza è cambiato. Quando il candidato Obama nel 2008 aveva parlato di ridistribuzione del reddito, McCain lo aveva attaccato dicendo che era lotta di classe, socialismo e cose simili. Ora la gente è cosciente di quanto lontano si sia spinta la sperequazione, e ciò è anche merito del movimento Occupy”.
Che fare?
“Riabilitare l’idea di bene pubblico. Bisogna rendersi conto che non si tratta di un insieme di beni individuali e che la società non ne costituisce la somma, ma che è un concetto collettivo. Abbiamo bisogno di un nuovo progetto riformista, più credibile della socialdemocrazia e del Welfare tradizionali. E’ necessario reinventare lo Stato”.
Cosa significa?
“La forma classica dell’organizzazione economica era la fabbrica Ford degli inizi del XX secolo. Un’industria simile all’esercito. Gerarchia, burocrazia, regole. Il settore pubblico è rimasto fermo a questo modello rigido, mentre l’organizzazione aziendale è invece cambiata. Le aziende sono elastiche, basate su reti di rapporti, in grado di prendere decisioni veloci e rischiose. Ecco perché lo Stato deve modernizzarsi come lo hanno fatto le aziende. Ma attenzione: questo non significa ritirarsi dalla sfera pubblica”.
In concreto?
“Faccio un esempio. La supremazia dei Paesi asiatici si basa sul fatto che danno maggiori responsabilità ai propri funzionari. Che sono meno ligi alle regole, possiedono migliori basi per la contrattazione e i concorsi, prendono decisioni in tempi più brevi. In Occidente abbiamo invece costruito troppe barriere. E poi abbiamo attribuito il diritto di veto ad alcuni attori della scena sociale, che non sono abbastanza forti da imporre qualcosa alle istituzioni pubbliche, ma sono abbastanza potenti da bloccarle. Così abbiamo la paralisi delle decisioni inerenti l’interesse pubblico generale. Lo Stato, ecco cosa significa la nuova socialdemocrazia, dovrebbe avere più capacità decisionale”.
Ma se la gente è convinta che ognuno debba badare solo a se stesso?
“Ne ho parlato con il governatore della California Jerry Brown, un democratico riformatore. Deve riuscire a far fronte a un deficit enorme. Ma quando aveva cercato di tagliare i costi dell’amministrazione è stato denunciato dagli impiegati. Ha vinto il processo, ma solo dopo due anni. Ora la decisione è bloccata dalla Corte d’appello. E lui mi ha detto: volevo fare qualcosa nell’interesse pubblico, nell’interesse della parte più povera della società , ma non posso. Vede, il Golden Gate Bridge a San Francisco, uno dei grandi investimenti pubblici del New Deal, è stato costruito in due anni. Ora stanno costruendogli accanto una strada d’accesso. E i lavori durano già da sette anni: è il prezzo delle baruffe per le questioni ambientali. Sono i prodotti collaterali della politica progressista, che in apparenza garantisce la tutela dei più deboli e che in realtà finisce per danneggiarli”.
E’ la Cina è il futuro del mondo?
“Il modello cinese è così peculiare che non può venir applicato in nessun altro Paese. In Europa non si può copiare la burocrazia cinese. Nessuno in Africa o in Medio Oriente potrebbe imitare i mandarini cinesi. Ma anche in Cina questo modello finirà presto per estinguersi”.
Perché?
“Fra cinque, dieci anni la Cina sarà un Paese diverso. Un’economia basata sull’export sostenuto da investimenti statali non può durare a lungo nel mondo di oggi. Se la situazione non cambia nei prossimi vent’anni la Cina non avrà dove trovare forze produttive. I cinesi non sono in grado di creare novità in maniera autonoma. Sono meravigliosi nel riprendere la tecnologia importata, ma chissà se sarebbero in grado di dar vita a una nuova Silicon Valley o alla rivoluzione biotecnologica”.
I cinesi studiano però nelle migliori università del mondo.
“E investono nel sistema educativo, ma è un sistema difettoso. Funziona benissimo per imparare la matematica, l’alfabeto o le scienze esatte, ma manca l’elemento creativo, la messa in dubbio degli assiomi e delle autorità , la discussione aperta sui risultati. Le cose stanno ancora peggio per quanto riguarda il sistema politico. Il regime continua a basarsi sul marxismo-leninismo-maoismo, in cui non crede più nessuno, e si mantiene solo grazie all’efficienza economica”.
Appunto. Finché i cinesi stanno bene perché dovrebbero ribellarsi contro il governo?
“Perché la modernizzazione della società crea una classe media colta e trasforma la politica. Lo scorso anno c’è stato un terribile incidente di un treno ad alta velocità . Il primo istinto del governo era stato di mettere tutto a tacere. Ma i cinesi sono riusciti a fare una serie di foto sul luogo dell’incidente e poi hanno messo tutto in Rete. Ciò ha costretto il governo a condurre un’inchiesta. E poi, l’ultimo scandalo riguardante Bo Xilai (membro dell’Ufficio Politico del Partito comunista, spiava il presidente; la moglie è sospettata di aver assassinato un businessman inglese, ndr.) ha mostrato che cosa sta succedendo ai vertici del potere. E’ finito il mito secondo cui gli abusi si verificavano ai livelli più bassi, mentre in alto le autorità erano oneste. Se vuole mantenere la pace sociale, la Cina ha bisogno di istituzioni, di principi che limitino il potere dei governanti”.
Il modello cinese può comunque sedurre l’America Latina o l’Africa.
“In America Latina la Cina non seduce nessuno. La democrazia liberale laggiù ha raggiunto dei risultati inaspettatamente buoni. Alcuni Paesi sono riusciti nel corso dell’ultimo decennio a ridurre le disuguaglianze sociali e a rafforzare la classe media. Quelli che non sono riusciti a farlo, come la Bolivia e il Venezuela, sono finiti sotto governi populisti, ma neanche per loro la Cina è un modello. Seguono piuttosto il miraggio del grande condottiero. In Africa, alcuni leader accettano con piacere soldi e investimenti cinesi, e vogliono un capitalismo controllato da uno Stato forte, ma non rincorrono il modello cinese, insediano invece dittature tipicamente africane. La Cina non è un prodotto da export”.
Torniamo a parlare dell’Occidente. C’è molta incertezza. I giornali sono letti da sempre meno persone. I giovani, terminati gli studi, trovano solo lavori precari.
“Cominciamo dalla crisi dell’editoria. E trattiamola come se fosse un esempio. Una volta le case editrici stampavano i libri nelle tipografie, poi camion guidati da autisti li trasportavano nelle librerie dove venivano venduti dai librai. Adesso, grazie a iPad, si può avere un libro in un istante. E’ più economico e veloce. Però abbiamo tagliato fuori l’autista, il tipografo, il venditore. Abbiamo privato insomma di lavoro una massa di gente di media cultura, e tutto il guadagno finisce nelle tasche di Amazon e all’autore. E’ un male? Io dico che è un effetto del progresso tecnologico e non della politica liberista. La gente deve adeguarsi al nuovo e gli Stati devo aiutare i loro cittadini a imparare a maneggiare le nuove tecnologie e non difendere posti di lavoro che non sono più utili”.
E chi deve assicurare questo processo? La scuola pubblica? Anche la scuola è in cattive acque.
“Sì, la scuola pubblica. E’ lo strumento principale per consentire alla gente di imparare”.
Lei ha scritto che compito della politica è soggiogare l’economia. I mercati globali sono una creazione degli uomini, e gli uomini possono addomesticarli. Ci sono dei segnali che ciò stia avvenendo?
“Probabilmente stiamo facendo ritorno alla socialdemocrazia. Negli Stati Uniti dopo la catastrofica politica estera e il crac economico dettati dal pensiero di destra stiamo forse oscillando verso una pratica social-liberale. Ma le idee non balzano fuori dalle teste e non prendono vita così, per magia. Devono farsi strada attraverso delle modifiche istituzionali, e le istituzioni vanno cambiate in maniera profonda. Questa è la mia principale preoccupazione”.
traduzione di Laura Mincer
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