“EMERGENZA, CAOS E MALATTIA: LE METAFORE DELLE NOSTRE PAURE” METAFISICA DEL CONTAGIO

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Chiudo il nuovo libro di Sergio Givone – Metafisica della peste (Einaudi) – con la sensazione che qualcosa, negli ultimi anni, è accaduto nelle nostre teste. È come se il nostro paesaggio mentale abbia inasprito le parti più dolci e reso impervi certi percorsi psichici. I sentimenti si fanno più precari e inquietanti e ci rendono più deboli e più esposti al contagio. A quei focolai di paura e sfiducia che vediamo crescere intorno. In fondo, l’essenza della peste è nell’improvviso insorgere del timore del contagio. Tutto repentinamente muta. L’ordine fin lì esercitato si riscrive in codici impensabili fino a un attimo prima. Il contagio richiama l’emergenza, lo stato d’eccezione, l’enigma. È di questo che ci parla il libro di Givone? Lungo un percorso nel quale tornano le colte letture di questo filosofo – allievo di Luigi Pareyson, professore di Estetica all’Università  di Firenze e da pochi giorni assessore alla cultura al comune di Firenze – scopriamo le forti congiunzioni tra il discorso letterario e quello filosofico.
Non teme una certa confusione di generi? «E perché mai? I grandi testi che hanno preso a tema la peste non fanno differenza fra filosofia e letteratura. Cos’è Lucrezio – che della peste è il massimo poeta – filosofo o letterato? E Camus che al tema ha dedicato uno straordinario romanzo? Se guardo poi alla nostra tradizione penso che la
Storia della colonna infamedi Manzoni è probabilmente il più importante libro di filosofia morale del nostro Ottocento ».
La peste è un evento che proprio Manzoni riconduce a un disegno divino. Mentre Lucrezio ha un’idea opposta.
«Intendiamoci: la peste è un’infezione del corpo, una malattia che oggi sappiamo definire con precisione. Ma quando ho citato Lucrezio è perché nessuno come lui ci spinge a liberarci dalla superstizione che la peste ingenera e cioè dalla credenza che essa venga dal cielo. Non c’è nessun disegno divino che ci riguardi. Il mondo è il mondo e basta. Ma proprio questa assenza di trascendenza, questo vuoto nel quale versiamo, è la colpa».
La peste, come tutto quello che rappresenta la regressione estrema, ci trova impreparati. Non pensa che una catastrofe ha sempre qualcosa di inaudito? «Ogni disastro epocale ci fa entrare in una desolazione primordiale. È vero: prima che accada, la catastrofe è impensabile. Per questo è difficile prendere delle precauzioni. La peste è un fenomeno della natura. Ma la natura non basta a spiegarla ».
La peste scatena sia i meccanismi mentali che quelli fisici del contagio. Quali sono i più temibili?
«I meccanismi del contagio sono stati scoperti nell’Ottocento. Ma in fondo, già  Omero parlava delle frecce che appestano, scagliate da Apollo nel campo degli
Achei. Di solito però gli scrittori, i poeti, i filosofi sono stati attratti più dai meccanismi mentali ed emotivi che non dal carattere meccanico del contagio. Ipotizzando che i primi fossero più importanti del secondo. Artaud sosteneva che la peste è un fenomeno virtuale, ma aggiungeva che il virtuale è più reale del reale».
Oggi il contagio assume forme diverse: le pandemie, l’Aids, i virus nella Rete, il contagio finanziario. C’è in queste espressioni odierne qualcosa di diverso rispetto alle narrazioni che in passato si sono fatte della peste?
«La differenza è che oggi abbiamo occhi solo per la peste qual è veramente e non come la immaginiamo che sia. È chiaro che la medicina combatte la peste in modo più efficace della metafisica. Però allora
come oggi la peste è un tremendo carro allegorico che irrompe nelle nostre città  e travolge ogni cosa. Solo se ci rendiamo conto che sempre di contagio si tratta, anche se solo in senso traslato, possiamo sperare di scamparla».
Questa relazione che lei stabilisce tra metafisica e peste non rischia di essere equivoca?
«In che senso?» Dopotutto, siamo inclini a pensare che la metafisica debba risalire a una causa prima. In realtà  la peste è esattamente l’opposto: un’irruzione del caos, dell’inspiegabile, l’assenza di un fondamento che non sia una spiegazione scientifica.
«Dipende da cosa vogliamo intendere con l’espressione “metafisica”. Secondo Aristotele essa è la scienza dell’essere in quanto tale. Dopo di lui si è pensato che in questione fosse appunto il fondamento, la ragione delle cose. Ma questo schema conoscitivo è assai più convincente se è svolto dalla scienza piuttosto che dalla metafisica. Quest’ultima ritengo debba occuparsi non tanto della ragione delle cose, ma del loro senso». Con quali effetti? «È la metafisica a dirci che la peste non ha nessun senso e questa insensatezza è il senso dell’essere». A proposito di insensatezza come giudica l’idea che ci siano in Europa paesi co-
me la Grecia, la Spagna e forse domani l’Italia che minacciano di contagiare il resto del mondo?
«Da un lato digrigno i denti perché trovo eccessivo il tentativo da parte dei paesi che si presumono sani o immuni di colpevolizzare i paesi appestati. Dall’altro mi domando se davvero non abbiamo colpa. E penso al nostro paese e a quegli allegri monatti che per quasi vent’anni hanno distribuito a piene mani intrugli malefici. Chi li ha voluti? Chi li ha eletti democraticamente?
» Anche la politica è vista oggi come un luogo di appestati. «È un mondo chiuso in se stesso, autoreferenziale, poco incline a farsi tramite delle istanze dei cittadini». E perché lei ha accettato di farne parte? «È la prima volta in vita mia che assumo un incarico politico, per la precisione, come assessore alla cultura. Penso, o mi illudo, che ci sia ancora lo spazio per la correttezza del linguaggio del fare e delle parole chiare e coerenti». La lingua è proprio l’organismo più esposto al contagio.
«Appestata è la lingua che ci ritroviamo a parlare per inerzia, per imitazione: la lingua di Facebook, di Twitter, figlia della televisione, a confronto della quale quella del vecchio e glorioso Bar Sport mi appare salutarmente ironica. La verità  è che chi parla male pensa male. E chi pensa male, prima o poi il male lo fa».
Il male, come la peste, produce il disordine? «L’arrivo della peste produce caos. Ma c’era chi, come Boccaccio, pensava che il crollo di ogni realtà  civile fosse già  la peste. In ogni caso, la peste è un’occasione per il pensiero: invita a pensare dall’impensabile, dal nulla che ci minaccia». Caos, disordine, stato d’eccezione. Il tempo della peste sospende il tempo della normalità ?
«Daniel Defoe, che scriveva sulla peste di Londra intorno alla metà  del XVII secolo, in anni non lontani dal
Leviatano di Hobbes, pensava così. Ma sapeva anche che la sospensione del tempo della normalità ,
in cui ciascuno attende ai suoi doveri, mette capo a un’alternativa. O la rinuncia alla libertà  e a tutti i diritti, tranne quello di aver salva la vita. O l’assunzione di una libertà  totale, grazie alla quale farsi responsabili di tutto nei confronti di tutti. Anche di ciò che non abbiamo voluto». Non le pare che è chiedere un po’ troppo a questa fragile creatura che è l’uomo? Non le pare che viviamo ormai immersi nel tempo del colera? «Penso che si viva sempre nel tempo del colera. E se questo è vero, allora hanno senso quelle vite che, nonostante la fragilità , si fanno carico del problema. Non hanno senso quelle che il problema lo ignorano, come se vivessero nel tempo della beata innocenza».


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