Egitto, ultima speranza

by Editore | 12 Giugno 2012 10:28

Loading

La porta dell’inferno esiste. Si trova al Cairo, e l’inferno non è un luogo in discesa, in basso, che più giù non si può. Per arrivare alla Mokattam bisogna salire, in alto. Prima camminare veloce in taxi per allontanarsi dal caos cattivo, ma sicuro del centro del Cairo, poi arrampicarsi lungo la tangenziale verso il quadrante sud-est, lasciarsi a sinistra la cittadella islamica, la città  fortificata che il Saladino iniziò a costruire nel 1180. Ecco, alle spalle della cittadella e delle sue moschee centenarie, sorge la spettacolare “città  dell’immondizia”, Mansheya, sulla cima della Mokattam, la collina pietrosa che chiude Cairo a sud.
Spettacolare,maèunospettacolodell’orrore,dell’umiliazione quelloincuisientra.Inquestacittà dellaspazzaturaognigiorno 60.000 copti cristiani, gli “zabeleen”, raccolgono, separano e riciclano le migliaia di tonnellate di rifiuti che i 20 milioni di musulmani. Donne, vecchi e bambini attendono i maschi e i giovani che dalle 3 di notte sono a caccia di immondizia, percorrendo strade e vicoli di questa città  sterminata con carretti trainati da asini o uomini, concentrando il bottino di cartone, alluminio, ferro, o putrida ma preziosa monnezza in sacchi di juta sempre più grossi, che vengono assemblati ed edificati sopra pick-up e camioncini che dal
primo mattino iniziano a risalire verso la Mokattam.
Attraversiamo in auto la porta dell’inferno, una specie di tunnel fra due palazzotti, risaliamo lungo strade di fango e melma, montagne di immondizia perforate da gatti e topi, ricoperte di nere mosche persistenti. La Mokattam entra istantanea dentro i corpi, con un odore che subito porta vicini al vomito; il ventre vibra come per espellere anche le immagini che intanto gli occhi continuano a imporre. Joseph, il cristiano che ci accompagna, spiega qualcosa: «Donne e bambini fanno il lavoro più sporco, quello della selezione della monnezza dei ristoranti,
delle famiglie; adesso che i maiali non ci sono più, o vengono allevati solo di nascosto, di questa roba si mangia tutto il mangiabi-le, il resto diventa compost». I maschi invece separano e lavorano plastica, pvc, legno, ferro, alluminio. Dai lati della strada si ascoltano all’interno dei palazzi macchinari rumorosi che triturano la plastica o i metalli, diffondendo ovunque nell’aria una polvere finissima, mortale per tutti. Dalle terrazze pendono fili d’acciaio, come quelli dei muratori: gli argani sollevano in alto, ai piani di questi palazzi ammalati di cancro, quintali e quintali di materiali “preziosi” che la notte non possono rimanere
negli scantinati, perché lo zebeleen della porta accanto è anche lui un ladro di monnezza come sai essere tu.
Al vertice di questo calvario di umiliazione c’è però la grande chiesa copta di San Simone il ciabattino, un’oasi spettacolare di isolamento dall’immondizia e dai suoi dolori. Ma soprattutto la fonte di molte spiegazioni. I fedeli che stanno per farci parlare con l’abuna Samaan Ibrahim, raccontano che negli anni 60 i cristiani dell’Alto Egitto vennero concentrati attorno al Cairo, e per molti l’unica possibilità  da allora è stata l’immondizia. «Qui riciclano fino all’80 per cento dei materiali», dice Joseph, «le società 
straniere che hanno provato a gestire i rifiuti al Cairo non arrivano al 50 per cento». È chiaro perché: le piccole mani dei figli degli zabeleen, quelle delle loro donne, sono lo strumento migliore per dividere l’immondizia. Solo che quel lavoro porta malattie e morte.
Laila Zaghloul, una delle animatrici della Ong “Spirit of the Youth”, assiste e insegna ai ragazzi degli zabeleen: «L’asma, i virus, le malattie portate dalla mancanza di igiene sono la norma in questo quartiere. E noi le combattiamo innanzitutto con l’educazione. Come le istruzioni che diamo per trattare i rifiuti ospedalieri, che loro continuano
a prendere con le mani per provare a lavarli e riutilizzarli».
Padre Samaan sta per liberarsi dalla sue telefonate, intanto i suoi fedeli spiegano cosa significa essere cristiani copti in Egitto, una minoranza forte, combattiva, ma minoranza. «Il regime negli anni ci ha sempre tenuto ai margini, quando serviva ci hanno utilizzato contro gli integralisti, per il resto non ci hanno mai aiutato ». Padre Samaan spiega che gli zabeleen copti, grazie agli aiuti dei cristiani più ricchi che vivono al centro del Cairo e della diaspora americana, adesso possono entrare in un piccolo ospedale cristiano, iniziano ad avere scuole, una forma minima di
assistenza sociale. «Mubarak non ha mai aiutato i cristiani, non voleva farlo vedere agli altri musulmani d’Egitto, o semplicemente non voleva».
Ma adesso che i candidati sono Mohammed Morsi, il segretario dei Fratelli musulmani, e Ahmed Shafik, il generale che è stato l’ultimo premier di Mubarak, cosa faranno i cristiani d’Egitto? «Se ci sarà  del bene, sarà  Iddio ad averlo voluto», inizia a rispondere padre Samaan, e sembra che presto le sue parole si perderanno tra i fumi di una voglia di nascondere la paura, il terrore di un Egitto in mano agli integralisti musulmani. Sabato 16 e domenica 17 si vota: i copti chi sceglieranno, il generale o il “fratello”? «Se ci sarà  del bene, sarà  Dio ad averlo voluto», galleggia ancora il prete, ma poi all’improvviso l’atterraggio è duro, e molto, molto chiaro: «Prima del voto del 24 maggio tutti i leader sono venuti da noi a chiederci il voto, è venuto Shafik, è venuto Amr Moussa. Noi chiediamo una sola cosa: non vogliamo un paese confessionale, un Egitto di una sola religione, vogliamo equilibrio e rispetto fra cristiani e musulmani ». Vuol dire votare per il candidato dei Fratelli musulmani, loro giurano che non imporranno uno stato islamico? «Noi voteremo Ahmed Shafik, le garanzie che ci dà  questo candidato sono più forti dei ricordi del passato, il timore che l’Egitto possa prendere una via sbagliata porta i cristiani d’Egitto a fare questa scelta: Shafik difenderà  gli interessi di tutto il paese».
L’abuna ormai non si ferma, quasi sghignazza quando emette la sua ultima sentenza: «Come
potremmo votare qualcuno del partito che ha proposto la strana legge sul marito che può disporre del corpo della moglie che è morta? Lasciamo stare, noi votiamo Shafik». Già , perché in Europa non ce ne siamo accorti, ma anche i più miserabili fra i cristiani del Cairo sanno che un deputato dei Fratelli musulmani ha depositato una proposta di legge del genere: il corpo della moglie appartiene al marito per 6 ore dopo la morte. Per farci cosa gli zabeleen si vergognano solo di immaginarlo.
Lasciamo la città  dell’immondizia, torniamo nella Cairo del caos: adesso la confusione è elettorale, un paese che 18 mesi dopo l’eroica rivoluzione, quella di Twetter e Facebook, si ritrova a scegliere fra i due poteri di sempre dell’Egitto moderno, i generali oppure i Fratelli. Il capo supremo dei generali, quell’Hosni Mubarak che ha permesso ai suoi sgherri per anni di massacrare chiunque tentasse solo protestare, adesso è nell’ospedale di una prigione. Avrebbe avuto due o tre collassi cardiaci, si sarebbe ripreso solo con il defibrillatore. Un gioco, dicono i Fratelli Musulmani, vuole farsi liberare dal carcere prima delle elezioni di sabato e domenica.Dall’altodellaMokattam i cristiani riciclatori di immondizia guardano allo scontro fra generali e integralisti come a una partita in cui loro potranno solo perdere. Ma loro, fra il male sperimentato dei militari e l’abisso incognito degli integralisti islamici, la scelta l’hanno fatta: «Noi ricicliamo tutto, siamo pronti a riciclare anche i generali di Mubarak».

Post Views: 210

Source URL: https://www.dirittiglobali.it/2012/06/egitto-ultima-speranza/