Effetto Werther
Lamadre ha una teoria sullo stile ideale dell’architettura texana: quando uno vive in un posto come la Florida, tutto sta ad avere una bella vista sul mare. Quando uno vive in Colorado, tutto sta a poter guardare le montagne. Ma in Texas, l’ideale è una casa che dia su tutto quel cielo azzurro, azzurro e pieno di sole.
La casa della mia famiglia, leggera variazione su quello che a Plano (Texas) è essenzialmente lo stesso modello di decine di migliaia di case fatte in serie, rappresenta un’espressione dell’estetica solare di mia madre: il piano superiore è dedicato perlopiù all’esterno, lasciando spazio alle finestre da quattro metri e mezzo che riempiono le stanze di luce implacabilmente allegra.
Il sole! Secondo me io sono fotosintetico di natura. Quando sono al sole provo letteralmente un senso di spiritualità . Mia madre va in estasi, ma io tutto quel cielo azzurro e quel sole li ho sempre trovati un po’ opprimenti. Nella densa e intricata Brooklyn, dove abito da quando ho ventidue anni, gli spazi hanno sempre un che di personale, il corpo e la voce di una persona sembrano sufficienti a riempire una certa area. Ma da ragazzino, a Plano, mi sembrava di poter fare qualunque cosa – potevo beccarmi un pugno al fegato sulla pista di atletica durante l’ora di educazione fisica; potevo imprecare contro i miei crescenti arcipelaghi di acne: potevo sentire i miei compagni delle superiori che davanti alla scuola spargevano la notizia che l’ennesimo ragazzino si era suicidato – e quell’impassibile volta azzurra assorbiva tutto: il momento passava, e poi restava soltanto quella luminosità silenziosa.
* * * Era il giorno del mio diciassettesimo compleanno, nel febbraio 1999, e stavo tornando a casa in macchina da scuola.
Il cielo fuori dal parabrezza era perfetto, l’ennesima bella giornata di un inverno di siccità . Il comune aveva cominciato a razionare le scorte d’acqua; la polizia pattugliava i quartieri per controllare che non ci fossero irrigatori accesi di straforo. Plano era una delle città americane che crescevano più rapidamente, ma la terra dura e secca su cui sorgeva spesso le dava filo da torcere. Quel giorno, mentre i trattori diserbavano smisurate strisce di prateria per fare spazio a futuri mini-centri commerciali e comprensori residenziali, la terra arida si alzava formando tempeste di polvere in miniatura, masse di marrone e arancione in movimento.
Le lezioni in genere finivano alle quattro e un quarto di pomeriggio, ma non era ancora mezzogiorno e io stavo già andando a casa. Quella mattina ero arrivato prima della campanella e avevo trovato i professori con gli occhi rossi e distratti. La mia insegnante della prima ora, famosa per la sua affabilità , aveva avuto uno scatto di rabbia a una domanda maligna di uno dei miei compagni. Alla terza ora, gli studenti gironzolavano per i corridoi e si accasciavano contro gli armadietti singhiozzando. Il preside, non sapendo come altro regolarsi, aveva sospeso le lezioni e ci aveva fatto andare via prima. E così, non era neanche ora di pranzo che stavo già tornando a casa. * * * I miei genitori ci avevano fatti trasferire a Plano per le stesse ragioni di tanta altra gente: lavoro, buone scuole, una città perfettamente congegnata per produrre famiglie di successo. Plano, rinomata per la sua prosperità , compare regolarmente sulle riviste come una delle migliori città del paese in cui far crescere i propri figli. È un posto inventato, anonimo, un patchwork di catene commerciali, filiali di aziende e case fabbricate in serie, il tutto organizzato in vista della massima produttività e semplicità , come un nuovo aeroporto.
Di recente, una volta che ero tornato a Plano a trovare i miei, ho fatto una passeggiata con mia madre in uno dei curatissimi parchi della città . Fermandoci su un piccolo belvedere, abbiamo osservato la geometria luminosa e banale dell’abitato. Beh, ha concluso lei, è il posto ideale per tirare su una famiglia. Qui è tutto molto
sensato. Sapevo che tu e tuo fratello sareste stati al sicuro.
E quindi abitavamo a Plano perché, almeno in parte, Plano sembrava prometterci sicurezza. Ma, come ebbi modo di scoprire, anche una città così solare aveva un tremendo lato oscuro che di tanto in tanto riaffiorava, in forme orribili e improvvise.
Nel giro di un anno, a metà degli anni Ottanta, mentre Plano si trasformava rapidamente da una cittadina rurale in un vero e proprio sobborgo di Dallas, cinque ragazzi iscritti alla mia futura scuola superiore si suicidarono. I giornalisti arrivarono, in massa, a fornire spiegazioni familiari e vaghe: la solitudine dei ragazzini lasciati troppo tempo soli in casa, il vuoto esistenziale di una città senza storia, i genitori che, nella loro instancabile ricerca della prosperità economica, trascurano i figli, lo strano fenomeno psicologico dei suicidi a catena. Per un paio d’anni, Plano faticò a scrollarsi di dosso una notorietà non voluta (la Capitale Americana dei Suicidi, venne ribattezzata dai cronisti), ma continuò a proliferare, e, nata dal nulla com’era, si espandeva troppo in fretta perché qualunque ricordo le restasse attaccato a lungo.
Eppure, come una maledizione soprannaturale, quel particolare lato oscuro tornò. Durante il mio secondo e terzo anno alle superiori, diciotto ragazzi morirono in un’epidemia di overdose da eroina, e poi in un’altra catena di suicidi.
Che cosa sapevo io di quelle morti? Inizialmente, ben poco.
Molto spesso, in quei mesi, arrivavo a scuola e la trovavo zittita dalla notizia della morte dell’ennesimo ragazzo che non conoscevo. Gli studenti del mio anno erano 1700: le morti avvenivano a una certa distanza da me, ma al tempo stesso mi circondavano da ogni parte. Un giorno, durante la pausa pranzo, un mio compagno di scuola che non conoscevo prese un bidone dell’immondizia e se lo sollevò sopra la testa. Urlò contro i tavoli e scagliò i rifiuti all’altro capo della mensa. Quella stessa sera si sparò in testa con la pistola del padre. Io e i miei compagni di classe, quando i giornalisti venivano a intervistarci, ostentavamo un tono cupo e cinico, intensificando il nostro normale atteggiamento da adolescenti. Giustificavamo la noia adolescenziale trasformandola in sociologia da quattro soldi: Certo, dicevamo, è comprensibile che tanta gente non riesca a sopportare un posto così sterile e senz’anima. Per tutto questo successo, avvisavamo, c’è un prezzo da pagare. Quelli di noi che non avevano ancora perso un amico riuscivano a vedere i suicidi come una metafora, una macchia su quei prati intonsi e quelle strade costeggiate di tulipani, un atto di ribellione che incitava ad altri piccoli atti di ribellione anche da parte nostra. Per via dei suicidi, i giornalisti erano venuti nella nostra scuola per invitarci a esporre sulle riviste e nei servizi tv ciò di cui un tempo ci lamentavamo solo gli uni con gli altri, che non avremmo mai osato dire agli insegnanti e ai genitori che avevano creato quella radiosa cittadina per il nostro benessere. Certo, dicevamo ai giornalisti, non vi pare che tutto torni? Ecco cosa succede quando una città ricca e immacolata trascura le cose più importanti.
Ma quando un mio amico, Ken McKinney, una sera si suicidò asfissiandosi nella macchina dei suoi, di colpo sembrò infantile e ridicolo attribuire alla cosa un qualunque significato. La morte di Ken produsse un brusco scollamento nel mio pensiero: tutt’a un tratto, i piccoli lotti di terra scintillanti di verde chimico parvero non avere nulla a che fare con la cosa terribile che stava succedendo. C’era soltanto, ora lo capivo, l’insensatezza del fatto che un ragazzino di sedici anni, pieno di talento e di carisma, si era ammazzato.
Dopo la morte di Ken, gli psicologi della scuola ci parlarono dell’elaborazione del lutto e della depressione, ma le loro parole sembravano vaghe e inadeguate come quelle di chiunque altro. E alla fine ci apparve chiaro che non ci sarebbe mai stato modo di dare una spiegazione all’accaduto. Il giorno del mio diciassettesimo compleanno, arrivando a scuola venni a sapere che la sera prima una delle psicologhe aveva chiuso la saracinesca del garage, messo in moto la macchina, e atteso che il gas di scarico le togliesse la vita.
* * * Quel giorno, mentre tornavo a casa, viaggiando verso ovest sulla Ford dei miei, la città di Plano a un certo punto lasciò il posto a lotti di terreno ancora non edificati, dove gli operai stavano ripulendo e spianando quella che un tempo era terra agricola per fare spazio a nuovi esercizi commerciali e villette. Il vento soffiava a raffiche intermittenti, e la polvere sollevata dalle ruspe e dai trattori si accumulava formando strane figure, macchie di Rorschach fatte di terra. Le nuvole aleggiavano come fantasmi rugginosi sopra Parker Road. La città cresceva così rapidamente che le strade erano irriconoscibili rispetto anche soltanto a un mese prima.
Diciotto ragazzi si erano uccisi, e adesso anche una psicologa della scuola. La polvere stava facendo qualcosa che non le avevo mai visto fare: restava sospesa sopra i campi e le strade in forme che parevano sfidare le norme della fisica. Ero euforico e impaurito al tempo stesso, soggetto al potere di nuove e strane forze. Le nuvole si spostavano verso il centro della strada e io mi ci infilavo dentro accelerando, senza preoccuparmi di cosa potessero nascondere. Quando ne attraversavo una, il parabrezza diventava marrone e per un attimo non vedevo neanche il cofano. Poi, ogni volta, riemergevo, più forte e spavaldo, nel giorno azzurro e tirato a lucido. Presi velocità e mi abbandonai sempre di più. Attorno a me si radunarono altre nuvole di polvere: sembravano qualcosa di personale. A meno di un chilometro da casa mia, a un semaforo, svoltai a destra e mi affacciai sul lungo rettilineo vuoto di Communications Road, sopra il quale stazionava la nuvola finora più grossa, piazzata lì come un fantascientifico portale spaziotemporale per i veicoli in arrivo, destinato a inghiottire le auto moderne e a depositarle in qualche ruvido momento del passato texano. Accelerai ed entrai nella massa marrone. Dentro la nuvola, a sessanta all’ora, improvvisamente una figura umana. Una persona, che rimbalzava via dal cofano della mia macchina; ma era troppo tardi per sterzare o frenare. In un attimo la mia macchina si fermò e l’esplosione dell’airbag mi gettò le braccia verso il tetto. La realtà di ciò che avevo appena fatto – Ho preso in pieno qualcuno, ho ammazzato qualcuno – apriva un altro futuro, contaminato per sempre da quel momento. La polvere non si disperdeva: il mio parabrezza era un trapezoide opaco oltre il quale non riuscivo a vedere nulla.
Quando infine il vento spazzò via quella nuvola, esalai un sospiro. La figura che avevo intravisto era stata un’illusione ottica o uno scherzo della mia mente. Non ero andato a sbattere contro una persona, ma contro un Suv, il cui paraurti cromato rifletteva il mio viso a una distanza di non più di mezzo metro.
* * * Il suicidio è contagioso. Gli psicologi lo chiamano Effetto Werther, e la sua influenza è facile da misurare: dopo un suicidio molto pubblicizzato, non solo il tasso generale di suicidi aumenta, ma c’è anche una drammatica impennata nel numero di incidenti stradali che coinvolgono una singola vettura. Gli psicologi offrono varie teorie per spiegare il fenomeno, ma nessuno riesce davvero a capire perché questa unanimità mortale sia tanto radicata nella nostra mente, come mai il desiderio compulsivo di morte passi con tanta facilità e sottigliezza da una persona all’altra. Io non riesco ancora a spiegarmi i suicidi di Plano, perché cominciarono proprio quell’anno e perché si interruppero, e non so se la mia collisione quasi fatale fu connessa a quelle morti da un qualche algoritmo socio-cognitivo. Sono passati più di dieci anni, e quando parlo con i miei amici di Plano di quel triste periodo, nessuno di noi concorda con gli altri sul numero esatto dei morti, e ci viene difficile ricordare le motivazioni che snocciolavamo con tanta sicurezza quando avevamo sedici anni. Ma mi vedo ancora davanti agli occhi quella figura umana sbalzata contro la mia macchina, anche se alla fine il vento l’ha cancellata, riassorbendola
nel cielo immacolato di Plano.
(Traduzione di Martina Testa)
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