Duecento metri a perdifiato per la dignità afroamericana
È, forse, la foto più famosa del Novecento. Di certo, condensa con la forza di un’esplosione un’intera epoca. Stiamo parlando, ovviamente, dell’immagine di Tommie Smith e John Carlos sul podio olimpico dei 200 metri a Città del Messico, con i pugni guantati di nero, espressione del black power e dell’unità delle lotte, i piedi scalzi, simbolo della povertà e della schiavitù, e la testa bassa, rifiuto di celebrare una bandiera grondante sfruttamento e colonialismo. Mai, come in quella notte del 16 ottobre 1968, un inno nazionale è stato trasformato in musica della vergogna e dell’oppressione.
È allora fondamentale, alla vigilia delle Olimpiadi di Londra (visto il draconiano copyright sul logo, il solo citarle potrebbe costituire una violazione della proprietà intellettuale), leggere l’autobiografia di John Carlos, curata da Dave Zirin (The John Carlos Story, Haymarket Books, pp. 193). Non sono le gesta di un eroe: è una storia comune, di povertà e di lotta, di classe e di dignità . Nato nel 1945 e cresciuto ad Harlem, figlio di un ciabattino e di un’infermiera, il piccolo John, davanti a una sala da ballo per guadagnare qualche spicciolo, scopre di essere nero aprendo ai ricchi signori di Manhattan le portiere di auto lussuose. Cosa significhi il colore della pelle glielo spiega il padre, troncando sul nascere i sogni olimpici della giovane promessa del nuoto: un negro non è accettato nelle piscine private in cui si formano i campioni. Correre non è stata un’alternativa, ma una necessità . A dimostrazione che il genio non è mai una questione individuale e appartiene sempre a storie collettive, Carlos diventa un fulmine per scappare dalla polizia, ad esempio quando con la sua banda ruba gli scatoloni di cibo sui treni nel Bronx per distribuirli ad Harlem.
L’influenza di Malcolm X
Nell’incontro con Malcolm X la ribellione del Robin Hood nero assume una forma politica: «ripeteva che dovevamo costruire un movimento unito, con ogni mezzo necessario. Non doveva essere fondato sul colore della pelle, ma sulla lotta degli oppressi contro gli oppressori». Il giorno del suo assassinio, il 21 febbraio del 1965, John non è in città e quella sua assenza lo perseguiterà per tutta la vita. C’è anche Malcolm X, i suoi insegnamenti e la sua rabbia, in quel pugno nero piantato sul muso dei padroni del mondo.
Non è per una scelta romantica, allora, che Carlos prende parte all’Olympic Project for Human Rights. «Perché dovremmo correre in Messico solo per strisciare a casa?», chiedono gli atleti neri nel loro manifesto, presentando quattro rivendicazioni: la destituzione del razzista Brundage dalla presidenza del Cio, l’assunzione di allenatori neri, l’esclusione del Sudafrica, la restituzione del titolo olimpico a Muhammad Ali, disertore della guerra in Vietnam («nessun vietcong mi ha mai chiamato sporco negro»). La campagna di boicottaggio, organizzata non da una nazione ma da una classe, il proletariato nero, mette in allarme gli organi della sicurezza americana e terrorizza l’industria sportiva.
In quell’industria Carlos, che si sta affermando come velocista, ha ben chiari i rapporti di sfruttamento. Quando sente l’allenatore compiacersi perché «i suoi cavalli avrebbero battuto gli altri», non ci pensa due volte: «sono John Carlos, il cavallo. Solo che questo cavallo ha un cervello e il potere di parola, quindi oggi non corre». (Chissà se pensava anche a questa storia Samuel Eto’o allorché sostenne: «mi tocca correre come un nero per guadagnare come un bianco».) E quando si sente dire che la politica deve stare fuori dallo sport, sa bene di cosa stanno parlando: i cavalli sono buoni per i profitti a patto che stiano zitti. È, non a caso, contro un cavallo che aveva dovuto correre Jesse Owens, che ben poco se ne faceva dei quattro ori conquistati a Berlino nel ’36, alla faccia di Hitler, per uscire dalla povertà e dal razzismo della natia Alabama. E proprio Owens fu mandato da Brundage per tentare di dissuadere gli atleti neri dal boicottaggio. Carlos non serba rancore verso Jesse per la sua triste e pavida sottomissione: è stato anche, scrive, uno scontro tra generazioni di afroamericani. Nessuna pietà o perdono, invece, per i padroni dei cavalli.
È il Sessantotto, il mondo è rovesciato dalla rivolta studentesca, proletaria e anti-coloniale. Pochi giorni prima dell’inaugurazione delle Olimpiadi, l’esercito messicano massacra centinaia di studenti nella piazza delle tre culture. Sulla strage cala il silenzio internazionale, lo spettacolo deve andare avanti: «sono quegli studenti, non io e Tommie, i veri martiri olimpici». Il 4 aprile Martin Luther King era stato assassinato e con lui scompariva la figura pubblica che avrebbe dovuto sostenere il boicottaggio degli atleti neri. Molti si scoraggiano e si defilano, altri si tirano indietro all’ultimo momento. Non Smith e Carlos: «non eravamo lì per vincere una medaglia o per la corsa. Eravamo lì per il dopo-gara». Bisognava salire sul podio non per la propria carriera, ma per vendicare una storia collettiva.
La macchina del fango
Allora Carlos parte come una scheggia, fila via in testa dopo la curva, si volta verso il suo compagno: lo incita, non importa chi taglia per primo la linea del traguardo, gli avversari non esistono, e non conta il nuovo record mondiale dei 200 metri. Stanno correndo insieme per la libertà di tutti. Così è: primo Smith, terzo Carlos. In quella foto chi occupa il secondo gradino del podio, l’australiano Peter Norman, non è lì per caso: sul suo petto luccica la spilla di solidarietà all’Olympic Project for Human Rights.
Missione compiuta, si scatena la tempesta. Allo stadio gli americani coprono di ululati razzisti e minacce di morte Smith e Carlos, giganti di dignità nella notte messicana. Il braccio di John rimane leggermente inclinato, pronto a colpire chiunque tenti di tirarli giù: «Tommie, se qualcuno ha un fucile non dimenticarti che siamo preparati a reagire velocemente agli spari». I media si scatenano contro chi ha avuto il coraggio di far irrompere la rivoluzione nello sport. Smith e Carlos vengono espulsi e, mentre ritornano negli Stati Uniti come nemici, Lee Evans sfida di nuovo il mondo salendo sul podio dei 400 metri con il basco nero: «Pensavo mi avrebbero sparato, e allora mi sono imposto di ridere. È più difficile uccidere uno che ride» (si veda il libro di Nicola Roggero, L’importante è perdere).
Gliela faranno pagare, a Carlos e a Smith. John smette di correre, sopravvivrà tra disoccupazione e precarietà , pedinato giorno e notte dall’Fbi, che fabbrica infamanti storie per rovinare la sua relazione e spingerlo all’isolamento. Intorno a lui una generazione di militanti neri viene incarcerata e uccisa, dalla polizia prima, dalla droga poi. Inizia il lungo inverno della controrivoluzione reaganiana, «che voleva cancellare gli anni ’60». Ma è un combattente, John, ed eccolo qua, fiero e deciso come su quel podio del Sessantotto. Non si pente di nulla e non si sente un eroe. Concludendo l’autobiografia il suo sostegno militante va, «al 1.000%», ai lavoratori del Wisconsin in lotta, precursori dell’esplosione del movimento Occupy. In fondo sono loro, i poveri e i lavoratori, gli eroi di questa storia.
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