Donatella Natoli “Acqua, cura delle persone e biblioteche così si ritorna alle lezioni di Dolci”

by Editore | 20 Giugno 2012 7:25

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   PALERMO – La salute e il sapere sono il filo rosso che lega le attività  di Donatella Natoli. Classe 1943, per decenni ha lavorato come medico a Palermo, quartieri poveri dell’Albergheria e di Ballarò, cercando di far capire ai pazienti che star bene è nelle loro mani. Medicina preventiva, medicina del lavoro, distretto socio-sanitario. Ora, di nuovo all’Albergheria, centro storico fatiscente del capoluogo siciliano, è animatrice della biblioteca Le Balate, dove si raccolgono i bambini del quartiere. È la sola in tutta Palermo dedicata ai bambini. Libri, arte, teatro, musica, gioco.
Donatella Natoli si interroga su come possano star bene le persone che non hanno avuto il diritto di scegliere. Immaginando un welfare che ha tanti volti, da come si allatta e si svezza un bambino a come quel bambino maneggia un libro. Conosce ogni pietra della Palermo antica, i decori barocchi della Chiesa del Gesù, quelli arabi che si insinuano nella duecentesca San Francesco. Racconta di nobili e regnanti, artisti e artigiani e poi degli abitanti espulsi dal sacco edilizio di Lima e Ciancimino. Il suo è un volto che si mescola con queste strade. Quando insegnava Igiene all’università , veniva con i suoi studenti per documentare quanto il tifo attecchisse perché mancavano le fogne. «Nelle cartelle cliniche», racconta in un palermitano colto e musicale, «si annotavano la patologia e la diagnosi, ma non dove abitasse il paziente. Pubblicammo un saggio sulla rivista
Epidemiologia e prevenzione.
Lo firmai insieme agli studenti. Successe uno scandalo».
Era scandaloso il contenuto?
«Non solo, era scandaloso che un professore universitario facesse firmare i propri allievi».
Torneremo sul suo lavoro di medico. Ora com’è cambiato il centro storico?
«Il quartiere si era svuotato, ma poi sono arrivati gli immigrati – indiani, africani del nord o del Ghana e della Costa d’Avorio. Le case sono a pezzi e i proprietari le affittano a prezzi esosi, senza metterle in sicurezza».
La biblioteca delle Balate è in una chiesa sconsacrata. Hanno imparato a conoscerla in tutta Palermo.
«È in un edificio che ha un marcato valore simbolico. Siamo nati nel 2006, lo spazio ce l’ha assicurato la Curia. Di mattina vengono i bambini
delle elementari. Si dividono in gruppi e usando i cinquemila libri che custodiamo, organizziamo per loro percorsi con la letteratura, la poesia, i miti. Abbiamo sceneggiato l’Odissea, poi discusso dell’acqua, dalle leggende antiche ai conflitti internazionali. Arriviamo a Danilo Dolci, alla sua lotta non violenta per ottenere una diga. E Libera, la prima figlia di Dolci, ci aiuta nell’educazione musicale».
Perché i bambini?
«Molte attività  del quartiere sono illegali. Piccolo spaccio, corse clandestine dei cavalli, combattimenti di cani. Un tempo tutto era controllato dalla mafia, ora meno. Lavorare con gli adulti è difficile, soprattutto con i maschi. Avendo raggiunto un benessere
precario non vogliono che gli si chieda di cambiare vita. Sono impermeabili. Con le donne è diverso. Sono disponibili a fare qualcosa per sé. E pensano a un’esistenza diversa per i figli. Questo è un momento delicatissimo per la società  palermitana».
Perché?
«È dirompente se in un ambiente mafioso s’immette l’idea che si possa fare altro. Qui la grande mafia non si addentra, manda pesci piccoli. Ma ora la mafia è stata colpita. Si possono proporre modelli alternativi e approfittare di più di questi vuoti».
E voi ne approfittate?
«La biblioteca cerca di infilare tanti sassolini nelle tasche dei bambini, per renderli più pesanti, per dar loro forza. Noi viviamo con pochi soldi e ci avvaliamo di donazioni e di un volontariato che è diventato contagioso. Fra coloro che ci offrono un sostegno figurano anche giudici del Tribunale di Palermo».
Che cosa unisce questa esperienza con quella compiuta come medico?
«All’università  eravamo quattro donne su circa cento iscritti. Facevo
attività  politica. Leggevamo i libri della collana “Medicina e potere”, seguivamo l’insegnamento di Giulio Maccacaro e quel che questo maestro sosteneva sulle modalità  di esercizio del potere da parte della medicina. Mi sono laureata nel ’67. E sono rimasta all’università  fino al 1980. Me ne andai prima di diventare associato».
Pesò lo scandalo degli studenti che firmavano un saggio violando una regola aurea del baronato accademico?
«Quello e altre cose. Nel ’74 avviammo un esperimento con le norme sulle 150 ore che gli operai potevano destinare allo studio. Organizzammo corsi sui danni da sostanze chimiche, si discuteva se fosse lecito scambiare il lavoro con la salute, di socializzazione delle informazioni, di presunta neutralità  della scienza. Durante un congresso della Scuola internazionale di epidemiologia a Erice facemmo parlare due operai. Immagini la reazione di professori venuti da tutto il mondo».
Com’era giudicata dai suoi colleghi?
«Commissionavo ricerche sulla mortalità  infantile. E mi fecero capire che quello non era un metodo che potesse valere in una facoltà  di medicina. Clinici e chirurghi erano i padroni del Policlinico, molti di loro erano impegnati nella sanità  privata».
Che in Sicilia è stata sempre un mondo opaco.
«Per me non c’era spazio. Anche gli studenti erano meno interessati a quel che proponevo. E intorno cambiavano molte cose, gli operai che si battevano per la salute in fabbrica venivano licenziati. Mi trasferii all’Ospedale dei bambini, qui all’Albergheria ».
Nel frattempo era stata varata la riforma sanitaria, che introduceva l’assistenza per tutti.
«Era previsto che nascessero distretti socio-sanitari, che avrebbero dovuto lavorare sulla prevenzione più che sulla cura. Riuscimmo ad aprirne uno, l’unico in tutta la Sicilia, solo nel ’90, nel quartiere di Ballarò. Si lavorava sull’alimentazione, le vaccinazioni e si compivano anche piccoli interventi di cura. Volevamo evitare che per qualunque cosa si finisse nella spirale di specialisti, farmaci e ospedale. La salute doveva passare dalle mani dei medici a quelle dei pazienti. Più allattamenti al seno, meno latte artificiale. Svezzamento con cibi sani e non con i barattoli di omogeneizzati. Alle donne abbiamo cercato di insegnare la cura di sé. E spesso ottenevamo che avessero meno mal di testa e migliori relazioni con i figli».
E com’è andata a finire?
«Ci hanno chiusi nel ’99. Formalmente perché le quattro infermiere che lavoravano con me servivano in ospedale. In sostanza perché non eravamo produttivi, non producevamo malati da smistare nelle strutture pubbliche o private».
Però quel filo rosso è tornato a tessere l’esperienza delle Balate.
«Le scuole di queste zone di Palermo sono disastrate. Accanto a molti insegnanti coraggiosi ce ne sono tanti che si avviliscono e hanno rinunciato alla possibilità  che la scuola sia fattore di riequilibrio sociale. Qui scontiamo un 28,5 per cento di dispersione scolastica. Bambini invisibili, mai protagonisti di nulla. Le Balate lavora con le scuole, è un luogo per tutti, dove si viene durante le ore scolastiche, insieme agli insegnanti. Di pomeriggio l’ingresso è libero, prestiamo i libri, incontriamo autori di letteratura per l’infanzia e organizziamo letture con le mamme. Le abbiamo attirate con un corso di ginnastica. E siamo finiti tutti con un libro in mano».

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