DIVERGENZE PARALLELE

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Nessuno, evidentemente, e certo non gli spagnoli che ieri hanno chiesto aiuto. Anche perché la sua sincerità  è indubitabile: se l’Europa affonda nella crisi, trascina con sé il resto del mondo e preclude a Obama ogni probabilità  di essere rieletto. Infatti gli statunitensi – non sono i soli – votano in base al portafoglio e alle prospettive di lavoro. Per ora Obama ha buone chances di vincere a novembre, anche grazie alla debolezza dello sfidante Mitt Romney, ma se la disoccupazione Usa cresce, il presidente può mettere una pietra sopra un secondo mandato. Perciò, in senso letterale, la politica europea è per Obama un fatto personale.
Ma subito dopo la spontanea, immediata simpatia, vengono i però. Non solo perché, come ha osservato con ironia il ministro degli esteri francese Laurent Fabius, «a quanto si sappia Lehman Brothers non era una banca europea», cioè: non è l’Europa che ha mandato in tilt il sistema finanziario mondiale. Ma anche perché gli Stati uniti non sono proprio innocenti.
Andando dal particolare al generale, intanto gli Usa detengono il controllo del Fondo monetario internazionale: se dessero il proprio beneplacito, la direttrice del Fmi Christine Lagarde potrebbe sganciare un bel po’ di miliardi invece delle battute sprezzanti sui greci. Da questo punto di vista assistiamo a una commedia delle parti dove ognuno chiede all’altro di metterci il malloppo mentre si tiene il proprio gruzzolo.
Soprattutto, la Germania non sta facendo altro che applicare all’Europa la ricetta americana, cioè aiutare solo le banche. Gli Usa non si sono mai sognati di rimettere a posto le finanze dei singoli stati o di ripianare il debito della California. Bensì la Federal Reserve ha messo sul piatto 3.500 miliardi di dollari per salvare quelle banche che considerava too big to fail. Né in questi tre anni si è mai visto negli Usa il benché minimo accenno di New Deal, a investimenti diretti, mirati a creare posti di lavoro. 
Anche Berlino ha elargito migliaia di miliardi di euro per le sue banche. Non solo, la Banca centrale europea e Bruxelles hanno lasciato marcire la crisi dell’euro così a lungo in primo luogo per permettere alle grandi banche mondiali di sganciarsi dai pericolosi investimenti nei paesi Piigs (Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia, Spagna): rispetto a due anni fa l’esposizione delle banche europee e americane verso i Piigs è diminuita del 70%: un default della periferia meridionale sarebbe oggi molto più indolore per le banche. Il fatto è che ognuno sfrutta la crisi per i propri scopi che si sovrappongono e confliggono. In primo luogo la crisi è usata per smantellare lo stato sociale: questo richiede che la situazione d’insolvenza diventi un’emergenza che giustifica tutti i sacrifici. 
Nello stesso tempo la Germania sfrutta la crisi per aumentare e rinsaldare la propria presa e il proprio dominio sul vecchio continente. Gli Usa al contrario manovrano per contrastare le spinte egemoniche delle potenze emergenti. È uno scenario di tutti contro tutti.
Il problema è che la ramanzina di Obama dell’altroieri non è la prima. Giorni fa ne aveva fatta un’altra al telefono. Rimbrotti analoghi erano piovuti già  da un paio di anni nei vertici precedenti sia del G8 che del G20, sia nei colloqui bilaterali. Obama deve rendersi conto che, se non sono seguite da risultati, le paternali ripetute perdono effetto e anzi espongono al mondo un’impotenza crescente. Poiché la terra è rotonda, la crisi finisce per mangiarsi la coda e tornare là  dove era nata, come un boomerang.


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