Da «Grexit» a «Spanic» I neologismi della crisi
È che, oltre a quello, qualcosa di incontrollabile è entrato nella narrazione della crisi europea e nel linguaggio che la racconta. Cioè nelle nostre menti. Non che il fenomeno sia del tutto nuovo. Un tempo, però, era motivato da manifestazioni di lungo corso e da esigenze linguistiche forti: i democratici cristiani italiani diventavano democristiani, Tanganica e Zanzibar si fondevano nella Tanzania. Oggi, invece, Merkozy — per esprimere un asse più o meno solido — dura qualche mese. Merkollande — meno creativo — vorrebbe prendere il suo posto ma forse non volerà mai. Siamo ossessionati dall’obbligo di sintetizzare e dagli slogan da marketing della crisi.
Sarà magari la ricerca dell’hashtag perfetto, della parola chiave che permette di dare un po’ di ordine a Twitter. Oppure è che in Europa la vita, scandita al ritmo dei mercati, ci ha fatto assorbire la lingua della finanza dei prodotti sintetici e dei Bund con i muscoli e dei Bonos sgonfiati: che le nuove parole piacciano molto a Financial Times ed Economist può essere indicativo. Oppure ancora è che lo Spanic, se dovesse prendere piede, e la Grexit, se si verificasse, sarebbero le portmanteau finali dell’Unione monetaria: potremmo leggerle, dunque, come scongiuri inconsci. Più probabilmente è che la fantasia, respinta quando si applica a risolvere la crisi vera e propria, si vendica come può. Succedeva anche sul Titanic. Orrore per orrore, «lingata»: una lingua rassegnata.
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