by Editore | 7 Giugno 2012 7:27
Una tendenza sorprendente della cultura contemporanea è la ricerca di un rapido potenziamento delle capacità cognitive. Il concetto che sta dietro a molti video popolari e a molti giochi di “addestramento intellettivo” online è che eseguendo attività che rafforzano la memoria, l’attenzione e altri processi mentali, si può diventare più intelligenti. La Nintendo commercializza il suo videogioco Brain Age presentandolo come una “palestra per la mente”. La Lumosity, che vanta 20 milioni di utenti, dice che i suoi giochi offrono «benefici cognitivi reali per individui di tutte le età ». Il Cogmed, che è stato adottato dalle scuole americane e svedesi, aiuta chi lo usa a «sbloccare le capacità cognitive allenando il cervello». La rivista Forbes recentemente ha scritto che il potenziamento cognitivo è il prossimo «settore da mille miliardi di dollari». Le forze armate Usa stanno addirittura studiando la possibilità di usare il brain training per migliorare le capacità dei soldati.
Da dove nasce questa mania? Fino a poco tempo fa, quasi tutti gli psicologi erano del parere che l’intelligenza fosse, sostanzialmente, una caratteristica fissa e definita. Ma nel 2008 l’articolo di un gruppo di ricercatori guidati da Susanne Jaeggi e Martin Buschkuehl ha messo in discussione questa teoria e ha rilanciato l’entusiasmo di molti psicologi sulla possibilità di allenare l’intelligenza, proprio con quel tipo di attività oggi diffusissime sotto forma di giochi.
Io, però, al pari di molti altri ricercatori in questo campo, guardo con scetticismo a questa ricerca. Prima che qualcuno spenda altro tempo e denaro per cercare un modo facile e veloce per potenziare l’intelligenza, è bene che spieghiamo perché questa idea non ci convince.
Nello studio Jaeggi i ricercatori hanno cominciato facendo compilare ai partecipanti un test di ragionamento per misurare la loro intelligenza “fluida”, cioè la capacità di stabilire collegamenti fra le cose, risolvere problemi nuovi e adattarsi a nuove situazioni. Dopo di che, alcuni dei partecipanti sono stati sottoposti a un allenamento lungo fino a otto ore su una difficile attività cognitiva, che consisteva nel dedicare una forte attenzione a due flussi di informazioni (una versione di questo compito ora viene commercializzata da Lumosity); gli altri partecipanti sono stati assegnati a un gruppo di controllo e non sono stati sottoposti ad alcun tipo di allenamento cognitivo. Dopo di che, tutti hanno ricevuto una versione differente del test di ragionamento.
I risultati sono stati sorprendenti. Gli autori hanno riferito che i partecipanti sottoposti al brain training avevano evidenziato progressi maggiori nel test di ragionamento rispetto al gruppo di controllo, e nonostante l’addestramento fosse stato relativamente breve il progresso registrato era sufficiente per produrre un miglioramento sostanziale nella vita di tutti i giorni. Sembra davvero una scoperta straordinaria. Ci sono stati molti tentativi in passato per dimostrare che è possibile potenziare in modo significativo e duraturo la propria intelligenza attraverso interventi esterni, ma tutti con scarso esito: quando sono stati registrati progressi, si è trattato sempre progressi modesti e che hanno richiesto anni di sforzi. Per esempio, in uno studio dell’Università della Carolina del Nord, l’Abecederian Early Intervention Project, alcuni bambini sono stati sottoposti, dalla primissima infanzia fino all’età di 5 anni, a un intenso programma finalizzato ad accrescere l’intelligenza. Nei test realizzati successivamente, questi bambini hanno evidenziato un quoziente intellettivo (QI) superiore di 6 punti rispetto a un gruppo di controllo (e diventati adulti le loro probabilità di conseguire una laurea erano quattro volte maggiori). L’incremento dell’intelligenza che risulterebbe dallo studio Jaeggi invece sarebbe di sei punti di QI in più dopo appena sei ore (!) di formazione: un punto in più all’ora.
I risultati della Jaeggi e degli altri sono intriganti, ma molti ricercatori hanno provato inutilmente a dimostrare miglioramenti statisticamente significativi del quoziente intellettivo usando programmi di addestramento cognitivo analoghi, come quello di Cogmed. Il sito PsychFileDrawer.org, che è stato creato come archivio degli studi replicati e falliti nel campo della ricerca psicologica, ospita una lista dei primi 20 studi che gli utenti vorrebbero che venissero replicati. Lo studio di Jaeggi e compagnia in questo momento è al primo posto. Da un lato indica che gli psicologi sono molto interessati all’idea che l’addestramento cognitivo possa produrre miglioramenti intellettivi rilevanti, dall’altro rispecchia una diffusa cautela riguardo ai risultati di un singolo studio.
Un altro motivo per essere scettici sta in un difetto di progettazione dello studio: la Jaeggi e gli altri hanno utilizzato un unico test di ragionamento per misurare i progressi. Come osservano gli psicologi cognitivi Zachary Shipstead, Thomas Redick e Randall Engle in una recente analisi della letteratura in materia di addestramento cognitivo pubblicata sullo Psychological Bulletin, l’intelligenza non può essere misurata attraverso un singolo test: riflette gli elementi comuni dei test di molte capacità cognitive. Dimostrare che i soggetti di un esperimento diventano più bravi su un singolo test di ragionamento dopo un addestramento cognitivo non prova che sono più intelligenti: sancisce semplicemente che sono più bravi in un singolo test di ragionamento.
Non c’è da sorprendersi se straordinarie scoperte sulla possibilità di rapidi progressi dell’intelligenza si rivelano sbagliate. Le straordinarie scoperte sono quasi sempre sbagliate. Ma non c’è nemmeno motivo di scoraggiarsi del tutto. Risultati di studi come il progetto Abecederian suggeriscono che è possibile accrescere l’intelligenza delle persone migliorando il contesto in cui vivono, e che questo può servire a migliorare la vita delle persone. Ma suggeriscono anche che per ottenere miglioramenti significativi bisogna impegnare risorse importanti. E se lo perdiamo di vista, queste risorse non le impegneremo mai.
(Traduzione di Fabio Galimberti)
© 2012 The New York Times
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