Colazione da Bradbury, i suoi marziani facevano “realpolitik”

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Mezzo secolo fa, si faceva colazione con Ray Bradbury, che raccontava un suo progetto di romanzo. Un Papa spaziale parte dal Vaticano per il Cosmo, con la sua astronave, alla ricerca della Verità . Pare infatti che in un altro mondo si trovi un’orribile razza di ragni con tre teste: ma vivono più eticamente e cristianamente di noi. Distruggerli? Benché «battista rinnegato» si confessava tuttavia affascinato dalla teologia cattolica. Ma soprattutto dei problemi teologici-spaziali. Così come la filosofia lo attraeva sotto specie di questioni metafisiche-spaziali.
Sembra dunque un’ironia che la radio annunci l’arrivo del Presidente Kennedy sul tetto del Beverly Hilton qui di fronte. Pare una situazione alla Bradbury: si sentono i motociclisti del servizio d’ordine sul boulevard, poi il rumore dell’elicottero che scende…
Due pericoli tremendi, continua lui: il commercialismo, cioè far cose che non piacciono e di cui non si è convinti, per obbedire al produttore, compiacere l’editore, fare un favore al direttore di un giornale… E l’intellettualismo: lasciarsi influenzare dai libri che si amano, dagli au-
tori che si ammirano, dai giudizi dei colleghi che si stimano… O anche illudersi di salvar l’anima facendo un “secondo mestiere” sedicente intellettuale, tipo l’insegnante. «Sono molto contrario a ogni secondo mestiere di tipo letterario: drena le migliori risorse, porta via troppo tempo se fatto con onestà , in complesso diminuisce il potenziale creativo». Aggiunge: «Non credo affatto all’insegnamento della letteratura. Tante mamme ansiose chiedono consigli per un figlio con tendenze letterarie. La risposta onesta è una sola: compragli una macchina da scrivere. E poi, si arrangi. Le lezioni private del Premio Nobel non giovano. E oggi, i futuri letterati e businessmen fanno i loro compiti di Letteratura Creativa o Ricerche di Mercato in due istituti adiacenti dello stesso college».
Una sera, alcuni suoi atti unici in un desolato studio ex-RKO, con attori-cowboys televisivi che praticano il teatro di idee non remunerato per non atrofizzarsi l’anima a Hollywood. Però, se va bene lo spettacolo, tutta la produzione
potrebbe venire ingaggiata da un teatro professionale.
Una medicina per la melanconia, Il meraviglioso abito nuovo, I pedoni,
unici fuorilegge perché ormai è vietato uscire senza automobile. Spaventati, scoperti, arrestati, interrogati. Ma l’auto della polizia è vuota, la voce è un disco, sono le stesse macchine che
fanno osservare la legge.
Bradbury è insomma un americano progressivo che scrivendo di marziani e di mostri fa in pratica della Realpolitik. Biondo, corpulento, energico, parla con gran calore e una tremenda forza di persuasione. Ma nel suo pragmatismo appassionato, oltre che l’antica sollecitudine umanitaria degli autori di Utopie, si sentono fisicamente rivivere in versione contemporanea due “linee” tradizionalmente inglesi di generosità  per gli altri prima che per se stessi.
Una, quell’ombrosa minoranza di moralisti puritani alla Orwell, D.H. Lawrence, Dr. Leavis, a cui non va bene praticamente niente. Ma il loro tormentoso e profetico «rappel à  l’ordre» scuote e riempie di rimorsi le coscienze più inquiete del «clan dirigente » scettico ed epicureo che
ha in mano la «stanza dei bottoni» del mondo della cultura, e tra affari e successi spera sempre di riuscire a salvar l’anima.
L’altra è la linea dei buoni vecchi zii liberali alla E.M. Forster. Possono magari disprezzare ingiustamente Conrad; compatire dall’alto al basso T.E. Lawrence o Firbank; esibire salamelecchi davanti a Virginia Woolf. E il loro limite? Non osare spalancar gli occhi sulle contraddizioni e le violenze, veri drammi del mondo moderno. Però credono in assoluta buona fede nel valore edificante e illuminante della buona letteratura, nel suo «spezzar le barriere», «comprendere», «connettere »… E come G.B. Shaw o Angus Wilson, possono trasformarsi in santi laici dell’etica laburista.
Un’altra sera, siamo a un party molto professionale in una casi-
piuttosto marziana su palafitte, interamente (pare) di cristallo sul cocuzzolo d’una montagna a crete, sopra il tratto prossimo al mare del Sunset Boulevard. «Ma io ho proprio venduto i giornali, per strada», dichiara fieramente Bradbury. «Da ragazzo, piuttosto che lavorare in banca e magari far carriera come dirigente. E sono convinto che invece di frequentare le classi di letteratura s’impara di più nelle biblioteche pubbliche. Anche solo passeggiando e leggendo i titoli negli scaffali; annusando i libri; e aprendone uno ogni tanto».
È venuto a Los Angeles dall’Illinois, durante la Depressione. A tredici anni, racconta. Suo padre era uno dei molti milioni di disoccupati, e qui la vita costava meno. Però lui diffida sistematicamente dei pericoli d’una grande città  come New York. «Eventi culturali da
non perdere, anche abbastanza attraenti, a tutte le ore: mostre, concerti, ricevimenti, spettacoli. E in più il “giro” letterario, tutti che si conoscono, e telefonano, e
invitano; e di qui il pettegolezzo sul farsi vedere tanto o poco, il non poter dire sempre di no, il gioco del prestigio basato sul numero delle “presenze” alle presentazioni… Ma bisogna che lo scrittore abbia un giroscopio dentro, che lo avverta quando sta perdendo tempo, fa cose non giuste, vede gente sbagliata… Dopo
tutto, sono le qualità  umane che contano, non l’ambiente. Perciò è un luogo comune superficiale ripetere che siccome si vive a Los Angeles si devono fare delle cose
ignobili per il cinema o la tv. Ci si abita perché ci si sta bene, e si può lavorare in pace… ».
Ripete continuamente: «perché so bene quello che voglio!».
«Influenzare una comunità  mentre si sta formando!… Agire per il loro bene, prima che se ne rendano conto!… Aiutare a costruire il nuovo Rinascimento!… Coi libri, coi saggi, certo: ma anche con racconti sulle riviste, con articoli sui giornali… servendosi d’ogni mezzo d’espressione: cinema e teatro, radio e tv… Scrivere oggi di trasporti pubblici e di gallerie d’arte, di pubbliche relazioni e di pianificazione urbana, è un modo pratico di insegnare a “essere umani”…». Per questo trova inutile e irrilevante ogni letteratura dell’assurdo; e deplora piuttosto che non esista in America un teatro di idee.
Chiaramente, il celebre narratore d’affascinanti miti fantascientifici si considera soprattutto un saggista che ha scelto di esprimersi in una forma immediata e diretta, come Butler e Swift. «Se scrivo “automobile” o “ascensore”, tutti capiscono, senza spiegare la carrozzeria e i carburatori, senza dover riepilogare ogni volta il funzionamento del motore a scoppio… E non aver paura di bagnarsi! Entrare nel fiume, non stare come spettatori sulla riva, se si intende influenzare le masse per il loro bene! E non disprezzare la chincaglieria, provare ad amare la mediocrità , i “comics”… Che in forme più o meno vignettistiche e paradossali si occupano degli aspetti sconcertanti della vita americana d’oggi più profondamente delle riviste “serie”, radicali o accademiche (a cui peraltro collaboro), ma tutte così lontane dalla realtà , seriose, incapaci di ironia…
«Come del resto la maggior parte degli scrittori americani: austeri, severi, magari acritici, intellettualmente modesti… Però come si prendono sul serio, come si amministrano: scrivono con l’aria di scrittori maggiori che “per il momento” pubblicano soltanto opere minori…
«È vero che – poveretti – sono spesso oppressi da problemi personali talmente gravi che non c’è da meravigliarsi se non vedono la realtà , o la vedono stravolta. Nessuno che si degni d’occuparsi di fantascienza, però: come se fosse un “genere” inferiore o folle… Mentre per esempio “fantascienza” significa la scoperta dell’America o l’invenzione dell’autona
mobile, la sua influenza sulla vita quotidiana… come l’automobile può modificare i rapporti amorosi, gli affetti familiari, la struttura stessa della famiglia… le influenze che può avere sulla sociologia del lavoro… il fatto stesso che in questa città  il pedone sia considerato una bizzarria…
«E senza contare il largo margine d’imprevisto, di aspetti incongrui o grotteschi, in ogni scoperta, da Colombo a Cortés… E la conquista dello Spazio! Nessuno si occupa delle trasformazioni straordinarie che avvengono in conseguenza della conquista dello Spazio: in filosofia, in psicologia, nelle arti, nella teologia stessa… Discorsi come quelli di Pio XII sullo Spazio sarebbero stati inconcepibili cent’anni fa»… Lavora tanto? «Tutto il giorno, da quando avevo sedici anni. Ogni racconto, in media, lo scrivo in una giornata. Poi lo metto da parte. Magari per anni. Lo riprendo, lo riscrivo. Finché non trovo “la riga decisiva”. Tante volte il guaio è di non saper da che parte incominciare: quattro o cinque idee al giorno… Ma non si possono scrivere quattro o cinque racconti al giorno!».
S’accende e scoppia di gioia parlando dell’entusiasmo di lavorare: «Magari occupandosi della morte, ma con una vitalità  tremenda, come faceva Goya». Proprio dopo questo paragone con Goya, fatto in un articolo di giornale parecchi anni fa, gli è arrivata una Lettera di Bernard Berenson, che cominciava così: «Questa è la prima lettera da “fan” che scrivo in 88 anni». Bradbury è
venuto a trovarlo in Italia; e hanno passato vari giorni insieme. «Mi ha svelato il Rinascimento… ha allargato le mie prospettive… mi ha dato una consapevolezza… come prima Huxley qui in California… e più tardi Russell a Londra… Sono loro gli amici più cari».ALBERTO ARBASINO


Mezzo secolo fa, si faceva colazione con Ray Bradbury, che raccontava un suo progetto di romanzo. Un Papa spaziale parte dal Vaticano per il Cosmo, con la sua astronave, alla ricerca della Verità . Pare infatti che in un altro mondo si trovi un’orribile razza di ragni con tre teste: ma vivono più eticamente e cristianamente di noi. Distruggerli? Benché «battista rinnegato» si confessava tuttavia affascinato dalla teologia cattolica. Ma soprattutto dei problemi teologici-spaziali. Così come la filosofia lo attraeva sotto specie di questioni metafisiche-spaziali.
Sembra dunque un’ironia che la radio annunci l’arrivo del Presidente Kennedy sul tetto del Beverly Hilton qui di fronte. Pare una situazione alla Bradbury: si sentono i motociclisti del servizio d’ordine sul boulevard, poi il rumore dell’elicottero che scende…
Due pericoli tremendi, continua lui: il commercialismo, cioè far cose che non piacciono e di cui non si è convinti, per obbedire al produttore, compiacere l’editore, fare un favore al direttore di un giornale… E l’intellettualismo: lasciarsi influenzare dai libri che si amano, dagli au-
tori che si ammirano, dai giudizi dei colleghi che si stimano… O anche illudersi di salvar l’anima facendo un “secondo mestiere” sedicente intellettuale, tipo l’insegnante. «Sono molto contrario a ogni secondo mestiere di tipo letterario: drena le migliori risorse, porta via troppo tempo se fatto con onestà , in complesso diminuisce il potenziale creativo». Aggiunge: «Non credo affatto all’insegnamento della letteratura. Tante mamme ansiose chiedono consigli per un figlio con tendenze letterarie. La risposta onesta è una sola: compragli una macchina da scrivere. E poi, si arrangi. Le lezioni private del Premio Nobel non giovano. E oggi, i futuri letterati e businessmen fanno i loro compiti di Letteratura Creativa o Ricerche di Mercato in due istituti adiacenti dello stesso college».
Una sera, alcuni suoi atti unici in un desolato studio ex-RKO, con attori-cowboys televisivi che praticano il teatro di idee non remunerato per non atrofizzarsi l’anima a Hollywood. Però, se va bene lo spettacolo, tutta la produzione
potrebbe venire ingaggiata da un teatro professionale.
Una medicina per la melanconia, Il meraviglioso abito nuovo, I pedoni,
unici fuorilegge perché ormai è vietato uscire senza automobile. Spaventati, scoperti, arrestati, interrogati. Ma l’auto della polizia è vuota, la voce è un disco, sono le stesse macchine che
fanno osservare la legge.
Bradbury è insomma un americano progressivo che scrivendo di marziani e di mostri fa in pratica della Realpolitik. Biondo, corpulento, energico, parla con gran calore e una tremenda forza di persuasione. Ma nel suo pragmatismo appassionato, oltre che l’antica sollecitudine umanitaria degli autori di Utopie, si sentono fisicamente rivivere in versione contemporanea due “linee” tradizionalmente inglesi di generosità  per gli altri prima che per se stessi.
Una, quell’ombrosa minoranza di moralisti puritani alla Orwell, D.H. Lawrence, Dr. Leavis, a cui non va bene praticamente niente. Ma il loro tormentoso e profetico «rappel à  l’ordre» scuote e riempie di rimorsi le coscienze più inquiete del «clan dirigente » scettico ed epicureo che
ha in mano la «stanza dei bottoni» del mondo della cultura, e tra affari e successi spera sempre di riuscire a salvar l’anima.
L’altra è la linea dei buoni vecchi zii liberali alla E.M. Forster. Possono magari disprezzare ingiustamente Conrad; compatire dall’alto al basso T.E. Lawrence o Firbank; esibire salamelecchi davanti a Virginia Woolf. E il loro limite? Non osare spalancar gli occhi sulle contraddizioni e le violenze, veri drammi del mondo moderno. Però credono in assoluta buona fede nel valore edificante e illuminante della buona letteratura, nel suo «spezzar le barriere», «comprendere», «connettere »… E come G.B. Shaw o Angus Wilson, possono trasformarsi in santi laici dell’etica laburista.
Un’altra sera, siamo a un party molto professionale in una casi-
piuttosto marziana su palafitte, interamente (pare) di cristallo sul cocuzzolo d’una montagna a crete, sopra il tratto prossimo al mare del Sunset Boulevard. «Ma io ho proprio venduto i giornali, per strada», dichiara fieramente Bradbury. «Da ragazzo, piuttosto che lavorare in banca e magari far carriera come dirigente. E sono convinto che invece di frequentare le classi di letteratura s’impara di più nelle biblioteche pubbliche. Anche solo passeggiando e leggendo i titoli negli scaffali; annusando i libri; e aprendone uno ogni tanto».
È venuto a Los Angeles dall’Illinois, durante la Depressione. A tredici anni, racconta. Suo padre era uno dei molti milioni di disoccupati, e qui la vita costava meno. Però lui diffida sistematicamente dei pericoli d’una grande città  come New York. «Eventi culturali da
non perdere, anche abbastanza attraenti, a tutte le ore: mostre, concerti, ricevimenti, spettacoli. E in più il “giro” letterario, tutti che si conoscono, e telefonano, e
invitano; e di qui il pettegolezzo sul farsi vedere tanto o poco, il non poter dire sempre di no, il gioco del prestigio basato sul numero delle “presenze” alle presentazioni… Ma bisogna che lo scrittore abbia un giroscopio dentro, che lo avverta quando sta perdendo tempo, fa cose non giuste, vede gente sbagliata… Dopo
tutto, sono le qualità  umane che contano, non l’ambiente. Perciò è un luogo comune superficiale ripetere che siccome si vive a Los Angeles si devono fare delle cose
ignobili per il cinema o la tv. Ci si abita perché ci si sta bene, e si può lavorare in pace… ».
Ripete continuamente: «perché so bene quello che voglio!».
«Influenzare una comunità  mentre si sta formando!… Agire per il loro bene, prima che se ne rendano conto!… Aiutare a costruire il nuovo Rinascimento!… Coi libri, coi saggi, certo: ma anche con racconti sulle riviste, con articoli sui giornali… servendosi d’ogni mezzo d’espressione: cinema e teatro, radio e tv… Scrivere oggi di trasporti pubblici e di gallerie d’arte, di pubbliche relazioni e di pianificazione urbana, è un modo pratico di insegnare a “essere umani”…». Per questo trova inutile e irrilevante ogni letteratura dell’assurdo; e deplora piuttosto che non esista in America un teatro di idee.
Chiaramente, il celebre narratore d’affascinanti miti fantascientifici si considera soprattutto un saggista che ha scelto di esprimersi in una forma immediata e diretta, come Butler e Swift. «Se scrivo “automobile” o “ascensore”, tutti capiscono, senza spiegare la carrozzeria e i carburatori, senza dover riepilogare ogni volta il funzionamento del motore a scoppio… E non aver paura di bagnarsi! Entrare nel fiume, non stare come spettatori sulla riva, se si intende influenzare le masse per il loro bene! E non disprezzare la chincaglieria, provare ad amare la mediocrità , i “comics”… Che in forme più o meno vignettistiche e paradossali si occupano degli aspetti sconcertanti della vita americana d’oggi più profondamente delle riviste “serie”, radicali o accademiche (a cui peraltro collaboro), ma tutte così lontane dalla realtà , seriose, incapaci di ironia…
«Come del resto la maggior parte degli scrittori americani: austeri, severi, magari acritici, intellettualmente modesti… Però come si prendono sul serio, come si amministrano: scrivono con l’aria di scrittori maggiori che “per il momento” pubblicano soltanto opere minori…
«È vero che – poveretti – sono spesso oppressi da problemi personali talmente gravi che non c’è da meravigliarsi se non vedono la realtà , o la vedono stravolta. Nessuno che si degni d’occuparsi di fantascienza, però: come se fosse un “genere” inferiore o folle… Mentre per esempio “fantascienza” significa la scoperta dell’America o l’invenzione dell’autona
mobile, la sua influenza sulla vita quotidiana… come l’automobile può modificare i rapporti amorosi, gli affetti familiari, la struttura stessa della famiglia… le influenze che può avere sulla sociologia del lavoro… il fatto stesso che in questa città  il pedone sia considerato una bizzarria…
«E senza contare il largo margine d’imprevisto, di aspetti incongrui o grotteschi, in ogni scoperta, da Colombo a Cortés… E la conquista dello Spazio! Nessuno si occupa delle trasformazioni straordinarie che avvengono in conseguenza della conquista dello Spazio: in filosofia, in psicologia, nelle arti, nella teologia stessa… Discorsi come quelli di Pio XII sullo Spazio sarebbero stati inconcepibili cent’anni fa»… Lavora tanto? «Tutto il giorno, da quando avevo sedici anni. Ogni racconto, in media, lo scrivo in una giornata. Poi lo metto da parte. Magari per anni. Lo riprendo, lo riscrivo. Finché non trovo “la riga decisiva”. Tante volte il guaio è di non saper da che parte incominciare: quattro o cinque idee al giorno… Ma non si possono scrivere quattro o cinque racconti al giorno!».
S’accende e scoppia di gioia parlando dell’entusiasmo di lavorare: «Magari occupandosi della morte, ma con una vitalità  tremenda, come faceva Goya». Proprio dopo questo paragone con Goya, fatto in un articolo di giornale parecchi anni fa, gli è arrivata una Lettera di Bernard Berenson, che cominciava così: «Questa è la prima lettera da “fan” che scrivo in 88 anni». Bradbury è
venuto a trovarlo in Italia; e hanno passato vari giorni insieme. «Mi ha svelato il Rinascimento… ha allargato le mie prospettive… mi ha dato una consapevolezza… come prima Huxley qui in California… e più tardi Russell a Londra… Sono loro gli amici più cari».


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