CLAUDIO MAGRIS

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Il verbo “rileggere” puo’ nascondere una menzogna. Piccola. Non grave. Il prefisso iterativo davanti a “ leggere” serve a chi si vergogna di non aver letto un libro famoso, e dice lo «sto rileggendo» e non come dovrebbe dire lo «sto leggendo». Per Italo Calvino l’ipocrisia veniale è frequente tra coloro che vantano vaste letture per superbia. Rivisitare – sul serio ! – le letture più importanti riserva grandi sorprese, perché si può avere l’impressione di vivere un avvenimento del tutto nuovo. E quindi, sempre per Calvino, una rilettura può essere una scoperta, come ogni prima lettura può essere una rilettura, quando si tratta di un classico. Perché un classico è un libro che esercita un’influenza particolare prima ancora di essere letto.
Mentre mi immergevo di nuovo, dopo venticinque anni, nel
Danubio
di Claudio Magris (riedito, insieme ad altre sue opere, nei Meridiani della Mondadori, a cura di Ernestina Pellegrini) ho ripreso in mano il famoso saggio dell’autore del
Visconte dimezzato, Perché leggere i classici,
del quale ho appena cercato di riassumere il contenuto. Impresa non facile perché quel geniale scritto offre quattordici definizioni di un classico. Io mi guardo bene dal sceglierne una per
Danubio.
Anche perché l ’opera di Claudio Magris è troppo giovane (1986) e ha davanti a sé tutto il tempo per conquistare il titolo. Il lettore – lettore (quello di Schopenhauer, cherinuncia a pensare perché lo scrittore che sta leggendo pensa per lui) può del resto assegnare quel titolo di nobiltà  da solo: non avendo né l’autorità  né la responsabilità  del critico, non è sottoposto alle accezioni del termine «classico», basate sull’antichità , l’autorità , lo stile eccetera.
Danubio
ha già  una continuità  culturale e, soprattutto, una qualità  rara: è al tempo stesso attuale e inattuale.
Ritornando dalla guerra nel Kosovo, nel ’99, percorrevo la strada tra Belgrado e Budapest, e arrivato a Novi Sad, capitale della Vojvodina e autentica città  danubiana, cercai Aleksandar Tisma, amico di una purtroppo breve stagione.
Non c’era, viveva ormai in campagna, nei pressi di Subotica, a ridosso del confine ungherese, e non poteva muoversi. Quindi non feci con lui la rituale passeggiata ai piedi della fortezza di Petrovaradin o lungo il Danubio. Era ammalato e infatti morì qualche anno dopo. E quando morì pensai che fosse morto per una malattia presa durante le sue nuotate quotidiane, in tutte le stagioni, nell’acqua fredda e inquinata del Danubio.
Di madre ebrea ungherese e di un serbo originario della Krajina croata, Aleksandar era nato in un villaggio della Vojvodina, sulle rive del Danubio. E aveva passato la vita soprattutto tra Novi Sad e Subotica, dove sono ambientati gran parte dei suoi romanzi e racconti.
Si allontanava malvolentieri dal fiume, nel quale si tuffava ogni giorno, e del quale parlava come uno parla dell’amante. Al punto che l’immersione quotidiana, raccontata sottovoce, faceva pensare a un rapporto sessuale. Durante la violenta disgregazione della Yugoslavia, nei primi anni Novanta, mi capitava spesso di prendere il traghetto tra la quieta sponda della Vojvodina e quella agitata e insanguinata
della Slavonia. Ed ogni volta, prima di attraversare il fiume, cercavo di incontrare Aleksandar Tisma. Mi parlava del grande Milos Crnjanski, l’autore di
Migrazioni,
che non conoscevo ancora, e del suo amico Danilo Kis, nato a Subotica e morto da poco a Parigi. Un giorno il discorso cadde inevitabilmente su
Danubio
di Claudio Magris. E lui mi chiese: «Ma tu credi sul
serio che ci abbia nuotato almeno una volta?».
Per lui il tuffo nel fiume riassumeva tante cose. Era anche un atto di fede, un battesimo. Con quel-l’interrogativo, dettato da un’inconscia, velata gelosia, voleva gettare il dubbio sull’ortodossia danubiana di Magris ? È spesso con ironia, senza rancore, che Aleksandar Tisma ha raccontato le interminabili
tragedie della sua esistenza: prima, come figlio di un’ebrea, quella dell’occupazione tedesca; e poi, come un militante della convivenza, quella del sanguinoso dopoguerra jugoslavo. Anche l’interrogativo su Magris doveva dunque essere interpretato attraverso il filtro dell’ironia. La rilettura di
Danubio
ha tuttavia suscitato un rimpianto. Quello di non avere parlato
più a lungo del libro con quel genuino mitteleuropeo e danubiano vissuto a Novi Sad e morto a Subotica. Avrei spiegato a Aleksandar che sì, Magris si era immerso sul serio nel Danubio. Forse senza mai tuffarsi nelle sue acque.
I libri rimangono gli stessi soltanto in apparenza, in effetti anche loro cambiano come i lettori. Nella luce di una prospettiva storica mutata i primi non appaiono più gli stessi, e il lettori maturi sono meno precipitosi, meno distratti, e quindi possono scoprire dettagli sfuggiti in gioventù e provare emozioni diverse.
Danubio
ha poco più di un quarto di secolo. È trascorso dunque molto tempo per chi aveva vent’anni o meno all’epoca della prima edizione, ma non poi tanto per chi ne aveva allora il doppio o poco più del doppio. La velocità  del tempo dipende dall’età .
Intanto il mondo è però cambiato per gli uni e per gli altri. È cambiato il mondo lungo il Danubio che Claudio Magris racconta nel libro. Il suo viaggio, romanzesco e romantico, ironico e sentimentale, culturale e curioso, storico e capriccioso, erudito e mai pedante, malgrado i mutamenti resta attuale e inattuale. Come i grandi libri. Il lato attuale, il brusio fuori della finestra, di cui parla Italo Calvino, l’inarrestabile flusso di notizie su quel che sta accadendo del mondo, non turba la lettura inattuale, non condizionata dalla vita in cui siamo immersi sul momento. Anche se poi non possiamo fare del tutto a meno di quel rumore di fondo che viene dalla strada, e che Magris non cancella.
Quando, a Vienna, rievoca l’assedio dei turchi nel 1683, il viaggiatore arrivato sul posto tre secoli dopo parla del nuovo, anche se diverso conflitto che incombe fra europei e turchi (aggiungo musulmani in generale) ritornati non con le armi ma col lavoro, con la tenacia dei Gastarbeiter, e sottoposti a umiliazioni e miserie. E qui il grande viaggiatore nel passato, che non si è scrollato di dosso il presente, sottolinea che, per la superbia dell’Occidente, le diversità  storiche, sociali e culturali rischiano adesso di far degenerare in violenza le difficoltà  della convivenza.
È come se sulla nostra Europa soffiasse il vento, non soltanto ironico, che accarezza la Cacania decadente di Musil. Quando Magris percorre la Mitteleuropa, seguendo il corso del Danubio, l’impero sovietico non è ancora imploso, e quindi la storia «non è finita» per coloro che l’avrebbero data per morta dopo la caduta del Muro,
una volta fallito il comunismo reale e quindi appiattito o promosso a pensiero unico il liberismo. O il capitalismo. O la democrazia, nelle sue approssimative versioni. E tuttavia la storia ha già  voltato pagina, e, a Budapest, dopo essere ricorso all’indimenticata cronaca dell’amico Alberto Cavallari, per rievocare la ormai remota tragedia del ’56, quando gli unghersi insorti schiodarono la statua di Stalin, Magris ritorna al presente con poche, nostalgiche righe: il fiume scorre grande, attraversa la più bella città  del Danubio, in cui si ha la sensazione fisica della capitale, e si avverte la signorilità  e l’imponenza di chi è stato protagonista della storia: ma il vento della sera passa su Budapest, sul caffé all’aperto, «come il respiro di una vecchia Europa che è ormai ai margini del mondo e non produce ma solo consuma storia». Non è l’Europa dei nostri giorni?
Nel Meridiano dedicato a Magris Gyà¶rgy Lukà¡cs compare per la prima volta a pagina 1089. Benché morto da un abbondante decennio, quando Magris lo nomina, il grande intellettuale marxista, filosofo e critico ungherese che scriveva in tedesco, è un imponente personaggio della cultura europea. La
sua fama è sopravvissuta alle tempeste del comunismo al quale ha aderito da giovane, e un comunismo spurio, malandato, è ancora imperante su un lungo tratto del Danubio. Wolfgang Kraus, saggista e fondatore della Società  austriaca di letteratura, parla di lui a Magris. Siamo a Vienna, al Caffé Landtmann, sul Ring, vicino al Burgtheater. Kraus racconta a Magris di una conferenza tenuta da Lukà¡cs nella cantina di quel caffé, forse nel ’52. L’autore della
Distruzione della ragione
(in cui si «combatte contro il fantasma di Nietzsche » che sta forse rinascendo, vittorioso su Marx) si rivolgeva a un pubblico sparuto. Una trentina di persone. Ma il suo grigio comizio di propaganda sovietica era trasmesso per radio nel paesi comunisti e probabilmente ascoltato da milioni di persone. Magris coglie l’occasione per mettere in risalto il pathos oggettivo di Lukà¡cs. Un intellettuale capace di porre la propria persona al servizio di un valore superiore, e «di scendere dalle altezze del grande stile sino al modesto e rozzo livello» di quei micui
crofoni strumenti dello stalinismo.
Il filosofo marxista ricompare nel Meridiano a pagina 1184. Siamo a Budapest al quinto piano del numero 2 della Belgrà¡d Rakpart, affacciata sul Danubio. Dal 1952, anno del comizio stalinista raccontato dal viennese Kraus, siamo passati al 1971, quando Lukà¡cs ha ottantasei anni, è ammalato di cancro e soffre di una sclerosi che riduce la sua capacità  di concentrazione, come egli stesso riconosce. Ma nella mano destra tiene il sigaro che l’ha accompagnato tutta la vita: da quando ha partecipato all’effimera rivoluzione ungherese di Béla Kun, subito dopo quella russa d’Ottobre, fino al lungo esilio nell’URSS, e poi ancora fino alla rivolta contro i sovietici, nel ’56, quando è ministro della cultura nel governo di Imre Nagy, giustiziato per quella rivolta. Che a Lukà¡cs è costata soltanto un anno di residenza coatta in Romania. Un anno senza libri ma con i sigari cubani.
Sono stati pesanti i neppure vent’anni, tra il grigio comizio nello scantinato viennese e la rassegnata vigilia della morte nella biblioteca sul Danubio, dove Lukà¡cs ha sotto gli occhi i tre ritratti di Gertrud, la moglie tanto amata. Ma pare
che non gli sia mai mancata l’ironia né la passione per la battaglia delle idee. Morirà  nel giugno di quello stesso anno, il 1971, in cui lo descrive Claudio Magris, con severa ammirazione.
Ed è una descrizione che mi riporta a due anni e mezzo prima, ai mesi che seguirono l’invasione sovietica della Cecoslovacchia, quando incontrai Lukà¡cs al numero
2 della Belgrà¡d Rakpart. Ricordo alcune sue parole che penso di poter riferire correttamente: «Nei suoi duemila anni il cristianesimo ha vissuto tante peripezie, il comunismo ha poco più di mezzo secolo, e nonostante i sovietici, appena pensano, commettano guai, bisogna dargli un po’ di tempo. Il comunismo ne ha ancora tanto davanti a sé». Allora parevano parole profetiche.
La magia di un libro dipende da quello che sei tu nel momento in
lo apri. Quando ho letto per la prima volta
Danubio
avevo una vaga conoscenza di Paul Celan. La mia ignoranza era ancora più profonda di quella che mi trascino dietro. Un quarto di secolo dopo mi suonano familiari le pagine dedicate da Magris, durante la tappa di Czernowitz, capitale della Bucovina, all’ebreo nato rumeno e diventato uno dei più grandi poeti di lingua tedesca del secolo scorso. E morto suicida nella Senna. Sono pagine che spingono a rileggere la poesia dell’ultimo poeta orfico, secondo Magris, o di un riformatore religioso, per Alberto Bevilacqua, il suo nobile traduttore.
Ci vuole tempo e spazio per raccontare una rilettura. Quasi quanto se ne dedica alla prima lettura. Ma è il momento di chiudere con un cenno a un Magris, per me insolito, che parla d’amore. Venticinque anni fa non mi ero soffermato sulle pagine di
Danubio
in cui lo scrupoloso germanista lascia intravedere la passione per la letteratura francese. A dargliene l’occasione è la triste vicenda della baronessina Maria Vetsera, che non aveva ancora diciotto anni e che, non amando Wagner, l’11 dicembre 1888, invece di andare all’Opera di Vienna, dove si dava
L’Oro del Reno,
raggiunse l’amante, il principe ereditario, lo sposato arciduca Rodolfo.
Due mesi dopo, il 30 gennaio 1889, Maria e Rodolfo furono trovati morti nello stesso letto, nella cascina di caccia di Mayerling, a quaranta chilometri da Vienna. Libri e film sono stati dedicati a quella tragedia, avvalorando il più delle volte la tesi più logica, il suicidio. È stata la storia di una passionalità  astratta ed esaltata, in cui più che amare l’altro si ama il proprio vagheggiare? Magris ricorda Emma Bovary le cui insoddisfatte fantasticherie ed evasioni sono il contrario dell’amore vero. Ma la passione può essere al tempo stesso vera e falsa, a Mayerling come nel villaggio normanno di Flaubert. E grande può essere comunque la poesia che la rappresenta.


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