Cambiamo stile di vita per governare il futuro

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Le Nazioni Unite si sono indebolite. Il G20 o altre strutture collegiali non hanno il potere né i mezzi sufficienti per guidare gli affari internazionali. E una gestione multipolare del pianeta è indubbiamente più complicata rispetto a quando era sostanzialmente dominato dalla leadership degli Stati Uniti. C’è una sola forza coesiva che oggi sembra governare il mondo ed è quella dei mercati finanziari, ma può farlo proprio perché si è incuneata nel vuoto di “governance” lasciato da chi gestisce la politica. Questo è il primo problema che abbiamo davanti guardando al nostro futuro. Una seconda serie di problemi sono i rischi globali che minacciano la sopravvivenza della nostra civiltà , o che come minimo potrebbero farla gravemente arretrare. Ne individuo almeno quattro: il cambiamento climatico, la crescita demografica, le armi nucleari (e mi riferisco in particolare alle potenziali conseguenze della questione iraniana), l’integrazione dell’economia mondiale (da cui deriva il pericolo di un collasso generale). A causa della carenza di una governance collettiva a cui ho appena fatto riferimento, il mondo reagisce a questi rischi globali cercando a malapena di contenerli, rinviando le decisioni più difficili, in sostanza provando a vivere alla giornata. Continuare così significa che, quando uno di questi rischi esploderà , sarà  troppo tardi per riparare i danni. 
Faccio solo un esempio, legato al cambiamento climatico. Ad esso è strettamente collegato il problema della sostenibilità  delle risorse energetiche. Al ritmo attuale, sappiamo che a un certo punto si consumeranno e non potranno essere più rinnovate. Ma il ritmo attuale aumenterà  vertiginosamente nei prossimi anni, se Cina e India, con una popolazione totale di 2 miliardi e mezzo di persone, cresceranno seguendo il modello di sviluppo occidentale, quello di una società  guidata dal consumismo di massa. Una soluzione quasi obbligata, a mio avviso, è dunque la ricerca di un nuovo stile di vita e di un nuovo modello di crescita e di consumo, non solo ovviamente per i paesi emergenti, ma per il nuovo sistema globale. Occorre pensare alla possibilità  di un capitalismo non dominato esclusivamente dagli interessi industriali e finanziari e a un’economia più giusta. 
Il 21esimo secolo sarà  dunque un momento di crisi prolungate e di profonda riflessione, uno sforzo analitico e risolutivo a cui il mondo accademico e intellettuale dovrà  dare il proprio contributo anche più del mondo politico. Ragionando sulla regione in cui viviamo, la crisi dell’euro è oggi all’ordine del giorno. Servono svariati interventi nel breve termine, ma nel lungo termine mi pare indubbio che per l’Europa non ci sia altro modo di andare avanti se non attraverso una qualche forma di federalismo. Obiettivo difficile, ma l’alternativa mi pare peggiore. E se si arriverà , come penso necessario, a questa svolta, allora la Gran Bretagna dovrà  indire un referendum per decidere una volta per tutte se stare dentro l’Europa, come io da europeista convinto mi auguro, o starne fuori. Personalmente, nel dibattito tra ottimisti e pessimisti sul futuro del mondo, non sto né con gli uni né con gli altri. Dico solo che la percezione del rischio globale che ci minaccia può generare massicce innovazioni, sia a livello tecnologico sia a livello sociale, e su questo dobbiamo puntare. Tale dovrebbe essere anche lo spirito delle forze progressiste, che in Europa stanno tornando al potere, come si è visto in Francia, ma più per l’incapacità  dei partiti avversari di affrontare la crisi che per meriti propri. La ricerca di una governance globale, in Europa e nel mondo, e di un nuovo modello di crescita e di una diversa “way of life”, dovrebbe essere il compito della sinistra in questo difficile secolo appena cominciato.


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