Bio e web, l’Italia sostenibile
C’è chi si è reinventato la filiera della carne per trattare meglio gli animali, nutrirli in maniera più naturale, vendere tutta la bestia per evitare gli sprechi da macello e fare al contempo un prodotto più sano e più buono: ora gli allevatori fanno la fila per entrare in questo circuito virtuoso. C’è chi ha messo su un gruppo d’acquisto. C’è chi ha lasciato la città , un lavoro “sicuro”, ed è andato a fare il pastore transumante o il coltivatore di antiche varietà di frutta e di verdura. C’è chi nell’azienda agricola dei suoi genitori ha convertito tutto al biologico e vi ha inaugurato un asilo nido rurale. Ci sono giovani e meno giovani che hanno aperto ristoranti dove si servono quasi esclusivamente prodotti locali, comprati da fornitori amici; altri ristoratori che hanno fatto un orto per avere prodotti freschissimi e di stagione: hanno tutti reinventato la propria cucina in base a questi ingredienti. Abbiamo chi vende i propri prodotti su Internet o direttamente in azienda per saltare troppi viaggi poco sostenibili e troppe mediazioni sconvenienti. Intanto sono migliaia i cittadini che tengono corsi nelle scuole, che fanno informazione come volontari durante le manifestazioni, alcuni hanno scritto manuali di educazione alimentare ed ecologica molto innovativi. E sono milioni quelli che nel mondo hanno cambiato anche soltanto una piccola abitudine insostenibile che avevano nel fare la spesa.
L’elenco potrebbe continuare e occupare tutto il giornale, tanto più se lo allargo agli altri Paesi: non faccio nomi per non fare torti, ma i protagonisti si riconosceranno, e li ringrazio. Li conosco perché fanno parte di reti e associazioni, e agiscono individualmente tramite piccole aziende familiari o quando acquistano il cibo. Sono tutti collegati in qualche modo tra di loro, anche in maniera invisibile. Sono tantissimi quelli che negli ultimi anni si sono dedicati alle buone pratiche agricole e alimentari, ciò che gioco-forza rappresenterà il nostro futuro. Hanno messo al centro delle loro vite quello che mangiano e stanno dimostrando che con il cibo si può fare buona economia, produrre e consumare in maniera sostenibile, ridare fiato a un Pianeta sempre più alle corde. Chi crede che tutto questo faccia parte di una bella utopia presto si dovrà ricredere.
In occasione della Giornata Mondiale dell’Ambiente del 5 giugno, e a maggior ragione mentre la comunità internazionale si appresta a riunirsi a Rio de Janeiro per la conferenza “Rio + 20” sullo sviluppo sostenibile (20-22 giugno), queste persone rappresentano già il cambiamento, qualcosa di forse ancora un po’ sommerso ma molto concreto: anticorpi che si stanno diffondendo contro i virus della crisi. Sono a pieno titolo parte di quella che si vuole chiamare “Green Economy”. Io non ho simpatia per queste definizioni perché spesso sono limitative o fuorvianti, con la Green Economy si rischia di pensare soltanto a chi installa pannelli fotovoltaici e pale eoliche, a chi lavora con le energie alternative, fa innovazione per mettere a disposizione delle aziende e dei cittadini nuove tecnologie “verdi”. Tutto eccezionale, tutto benvenuto, ma non facciamo l’errore della vecchia economia che pensa a compartimenti stagni e li tiene separati. La Green Economy sarà tale soltanto se riferita a un sistema complesso, che parte dal cibo e che ha implicazioni non solo ecologiche ma anche sociali, culturali; arrivo a dire esistenziali.
Per me, e per tanti altri nel mondo, Green Economy è per esempio ricostruire quei sistemi locali fatti anche di piccoli esercizi commerciali, di panettieri e salumai, di gente che re-impara il savoir-faire del cibo e lo mette a disposizione della comunità . Nuove filiere del cibo, ri-educazione alimentare. Gente che ritrova un senso in un mestiere, che rimette in piedi la socialità attorno al suo laboratorio, negozio, fattoria, mercato, osteria. Non è nostalgia del passato: per esempio mi chiedo che Green Economy sarà se non si recuperano i borghi, li si ripopola e li si fornisce dei servizi essenziali, dei negozi, di una nuova ruralità . Senza che s’investa nelle ristrutturazioni e nel riparare o prevenire i danni di disastri naturali sempre più frequenti. Che ne sarà del cibo senza che si fermi il consumo di suolo libero, delle nostre città senza il verde, anche un verde produttivo, o senza gli esercizi commerciali di quartiere, i mercati contadini, l’agricoltura di prossimità . Non si fa Green Economy solo con il solare e l’eolico o solo con il biologico; non si fa Green Economy solo con la “chimica verde” o con un mercato contadino. Si fa Green Economy con un nuovo paradigma che ci riguarda tutti e che può diventare un’opportunità di fronte ai dati allarmanti sul cambiamento climatico e alle tremende crisi economico-finanziarie.
Ma bisogna educarsi, avere memoria del passato, imparare cose nuove, avere coraggio e creatività . Bisogna ricostruire un sistema intero e lo si può fare soltanto se si guarda oltre al proprio ambito, se si capisce per esempio che il cibo è la rappresentazione principale di questo sistema e che anche con un piccolo cambio di dieta, con un semplice acquisto, si può davvero cambiare il mondo e fare un’economia diversa, “new” o “green” che sia. Proprio per cambiare dieta segnalo la nuova guida al consumo responsabile di Slow Food, “Fulmini e Polpette”, con tema il cambiamento climatico. È gratis e si può scaricare dal sito www.slowfood.it/slowfoodday. Al suo interno ci sono tante facili buone pratiche che possiamo fare nostre, con piacere e per fortuna senza essere soli, ma molto ben accompagnati.
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