by Editore | 24 Giugno 2012 12:39
«Abbiamo messo sul piatto 40 miliardi di euro di aiuti, ci potrebbero almeno dire grazie» è sbottato, nei giorni scorsi, un ministro tedesco. L’esasperazione dell’uomo di Berlino riflette accuratamente la crescente insofferenza dei contribuenti tedeschi,
convinti di essere, più o meno, gli unici a pagare il conto, a forza di salvataggi, della sbornia di finanza allegra della Grecia e del resto dell’Europa meridionale. Angela Merkel ha portato questa insofferenza al vertice romano di venerdì scorso con Monti, Hollande e Rajoy e farà lo stesso al summit europeo di venerdì prossimo. Qualcuno, prima che sia troppo tardi, dovrebbe spiegare alla signora Merkel che non è vero, tanta insofferenza è ingiustificata, la Germania non sta pagando più degli altri. E pregarla anche di passare il messaggio ai contribuenti tedeschi. Perchè, a fare i conti della generosità tedesca, si potrebbe, anzi, ragionevolmente sostenere che Berlino paga troppo poco.
L’APPORTO DEI PAESI PICCOLI
Non solo la Germania continua a guadagnare, dall’euro, più degli altri Paesi. Non solo Berlino ha imposto, ad esempio, sui prestiti alla Grecia, condizioni particolarmente
esose: in virtù di un complicato meccanismo finanziario, hanno spiegato gli esperti al
New York Times,
due terzi dei prestiti ad Atene non arrivano affatto all’economia greca, ma tornano subito indietro a rimborsare i munifici creditori, Berlino in testa. Ma, soprattutto, la supposta generosità che esaspera i contribuenti tedeschi è una illusione ottica, una sorta di miraggio contabile. Ad aiutare i Paesi in crisi, nel loro piccolo, stanno contribuendo, più della grande Germania, scriccioli come l’Estonia, Cipro, Malta. La verità è che la signora Merkel e la Germania hanno il braccino corto. Considerate le dimensioni delle rispettive economie, paradossalmente, anche più corto di Paesi in crisi come l’Italia
e la Spagna.
Una grande banca – Credit Suisse – ha messo in fila i contributi che i singoli Paesi europei stanno offrendo per il salvataggio dell’euro: prestiti bilaterali, fondi versati al Fondo salva-Stati, garanzie di credito offerte allo stesso Fondo, quota di capitale del nuovo Fondo che sta per essere varato, l’Esm. In cifre assolute, la Germania è il Paese che contribuisce di più, oltre 114 miliardi di euro, anche se, per oltre metà , si tratta solo di garanzie e non di soldi effettivamente versati. Ma la Germania è anche il Paese più grande e l’economia più vasta. Quei 114 miliardi di euro sono solo il 4,46% del Pil tedesco. In proporzione, è molto più pesante lo sforzo sopportato da Malta, con il 6,59% del suo Pil. La
Slovenia è al 5,29%, l’Estonia al 5,19%. A ben guardare, anche Italia e Spagna offrono un contributo, in proporzione alle loro economie, superiore a quello tedesco. Inoltre, il grosso degli economisti ritiene che la Germania sia il Paese che più avrebbe da perdere da un collasso della moneta unica. Senza l’euro, le industrie tedesche dovrebbe fare i conti con un tasso di cambio molto meno favorevole alle loro esportazioni, che sono il grande volano dell’economia di Berlino. E, anche, con tassi d’interesse non così bassi come quelli di oggi: più o meno, un’azienda tedesca ottiene, attualmente, credito a costi cinque-sei volte inferiori a quelli di un concorrente italiano. Sono vantaggi cospicui, ma difficilmente quantificabili.
Almeno per un soggetto, però, qualche conto si può fare. Si tratta dello Stato tedesco. Nella primavera del 2011, prima che esplodesse la crisi, il Bund – il titolo pubblico decennale – aveva sul mercato un rendimento intorno al 3,50%. La crisi, spingendo i capitali verso il rifugio della Germania, ha fatto precipitare i rendimenti all’1,50% e anche più in giù. Su un debito pubblico complessivo che, non rispetto al Pil, ma in cifre assolute, non è troppo lontano dalla montagna italiana, due punti in meno sono un risparmio notevole che alcuni economisti stimano in almeno 40-50 miliardi di euro, che andrebbero messi a confronto con le cifre che Berlino ha impiegato nei salvataggi di questi mesi.
LA STRETTA SELVAGGIA
Apparentemente inconsapevole di questi vantaggi, la Germania si è invece preoccupata, fin dall’inizio, di spendere il meno possibile. Imponendo una lettura della crisi – e conseguente ricetta – che, secondo molti, se presa alla lettera, non sta in piedi. Yanis Varoufakis, un economista dell’università di Atene, ha provato a calcolare quali sarebbero gli effetti dell’applicazione del “fiscal compact”, il patto di disciplina di bilancio, varato a marzo e in corso di approvazione in questi mesi. Se i Paesi che, oggi, hanno un debito pubblico superiore al 60% del Pil (Spagna, Italia, Portogallo, ma anche Francia e Germania) dovessero applicare, tutti insieme, scrupolosamente, l’articolo che prevede l’obbligo di ridurre del 5%, ogni anno, quel debito, gli effetti sui bilanci sarebbero, dice Varoufakis, enormi. Un disavanzo primario (al netto cioè degli interessi sul debito) pari, nella media europea, al 2,8% del Pil dovrebbe trasformarsi in un avanzo primario, sempre in media, del 6%. Una stretta selvaggia che, secondo l’economista greco, precipiterebbe l’economia dell’eurozona nella depressione, tagliandone il Pil del 4,5%.
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