Avventure picaresche di ragazzi e di cani randagi

by Editore | 20 Giugno 2012 7:55

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Ai cani di Palermo, domestici ma più spesso senza padrone, si potrebbe intestare una minima storia letteraria locale: la bibliografia comprenderebbe quantomeno Il Gattopardo, (come dimenticarsi di Bendicò?), La famosa rivolta dei cani in Sicilia di Roberto Alajmo, Cinopolis di Marcello Benfante; I cani di via Lincoln di Antonio Pagliaro, Mio padre non ha mai avuto un cane di Davide Enia, Visione delle ossa aride di Giorgio Vasta (ma qui già  si tratta di scheletri); e ancora, volendo, Cani di Bancata di Emma Dante (ma siamo già  in teatro), e perfino un brutto racconto autobiografico sulle malversazioni universitarie come Baroni di Nicola Gardini, nel quale ai randagi palermitani toccava in sorte allegorizzare il degrado morale di un’intera classe intellettuale dominante. L’ultimo omaggio ai quadrupedi palermitani lo ha reso Evelina Santangelo, nel suo Cose da pazzi (Einaudi, pp. 328, euro 21), ed è uno di più belli di sempre.
Ci ha messo un bel po’ di tempo, Santangelo, prima di decidersi ad ambientare un romanzo nella sua città ; anzi, più precisamente, prima di tentare l’azzardo di raccontarla, di intuirne l’arcano e di provare a restituirlo nelle pagine di una narrazione contemporanea. E non si tratta solamente di un dato oggettivo con cui corredare una sinossi del nuovo romanzo della scrittrice: vale piuttosto come chiave di lettura indispensabile per cogliere e apprezzare il senso di un romanzo solido quanto appassionato. 
A ben guardare, per l’autrice palermitana, si è trattato di un graduale processo di avvicinamento, dagli esordi dell’Occhio cieco del mondo (datato 2000) fino a questo libro letteralmente incistato nel corpo tumefatto e traboccante della metropoli siciliana; e che la biografia autoriale di Santangelo andasse letta anche come un sofferto quanto consapevole percorso verso questo luogo originario, irresistibilmente attrattivo quanto insopportabilmente respingente, del resto, lo attestavano due significative tappe di approssimazione: il bellissimo racconto lungo Il giorno degli orsi volanti del 2005 e soprattutto lo straordinario lavoro compiuto sui dattiloscritti di Vincenzo Rabito, per l’edizione del suo Terramatta. 
Per allestire il proprio homecoming letterario, Santangelo ha optato per un impianto romanzesco tradizionale, devolvendo a una terza persona il compito di strutturare la narrazione, senza rinunciare ad affidargli una prossimità  di sguardo, rispetto ai personaggi e all’ambientazione, che sembrerebbe conferirgli una precisa funzione testimoniale, quasi omodiegetica. A ratificare questa focalizzazione interna è la scelta prospettica compiuta: i protagonisti di Cose da pazzi sono due ragazzini, Rafael e Richi: il loro universo è il rione popolare (fantasioso e realistico insieme) Spina, incastrato tra i mandamenti della Palermo vecchia e i viali della città  borghese; la loro breve epopea coinvolge i randagi di cui sopra, Bumma, Ciccia e Fifa, adottati dalla comunità  dei vicoli e dei bassi, nonché la comunità  stessa, fatta di palermitani che sembrerebbero stare lì da sempre e da immigrati rapidamente integratisi nel corpo macilento della città  vecchia. La loro bildung si compie tra l’etica civile incarnata dalla loro professoressa di scuola, la precaria Rita «che ha sempre i no pronti», e la prassi violenta del sottobosco mafioso che condiziona la vita del quartiere; tra una cocciuta educazione alla cittadinanza che sa di utopie concrete e una de-formazione che può solo tradursi in resa alla sopraffazione ovvero in rabbia inconsulta, in rivolta insofferente. 
Questi picari di quartiere hanno solo il tempo di accennare i loro sogni, di crogiolarsi appena nei loro incanti adolescenziali, giusto quello di tracciare, o solo di tentarlo appena, un itinerario soggettivo che trovi spazio tra i poster di Fabrizio Miccoli e i miti televisivi, che conquisti un metro di terreno allo «Scimunito col bollo» o ai bulli di quartiere, che incombono come un destino senza redenzione: «Così, adesso, Rafael sente il buco della gengiva rimasta vuota sotto la lingua. La cosa più brutta di questa storia che uno deve crescere… riempiendosi per forza di buchi». Eppure, questo sogno di redenzione negato sembra essere stato occultato tra le righe, sotto le parole del romanzo, fin quasi a contraddirlo mentre si va dipanando. O forse era già  annunciato, come un presagio, quasi come una promessa, nella capriola dei due ragazzini della foto, della palermitana Shobha, in copertina.

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