by Editore | 15 Giugno 2012 8:21
Nel caleidoscopio disneyano, nel dilagare della moda dei pets, nell’accattivante aneddotica di Konrad Lorenz, nell’estetica documentaristica o sulla carta patinata da National Geographic, il Novecento più di ogni altro è stato il secolo che ha negato la diversità degli animali. Forzosamente ridotti a una categoria oppositiva all’uomo – l’animalità , appunto – e stretti tra la pretesa reificatoria e quella antropomorfica, i soggetti delle diverse specie si sono visti negare il passaporto della loro plurale identità , per essere trasformati in peluches, bambini, robot, macchine da produzione, oggetti di consumo.
Perdite di valore
L’animale automa di matrice cartesiana ha ispirato nei primi decenni del secolo scorso le due principali ipotesi esplicative dell’espressività non-umana: quella behaviorista, che trattava le altre specie come burattini mossi dai fili dei condizionamenti, e quella psicoenergetica, che leggeva il comportamento come lo sfogo di un’energia accumulata. Sull’altro fronte l’eredità di Grandville e di Cesare Lombroso ha trasformato l’animale in una maschera, utile per decrittare vizi e virtù dell’essere umano, con il risultato di sancire il carattere di quasi-umano, approssimazione o minus habens delle altre specie.
Ancora oggi ogni antropomorfizzazione degli animali viene rappresentata come una concessione e non una mortificazione della dignità specie specifica. Non vi è dubbio che il pur meritorio tentativo animalista di Peter Singer e Tom Regan, che pretende di superare l’antropocentrismo etico senza mettere in discussione la matrice umanistica, attraverso la semplice partecipazione o inclusione dei non-umani all’universale, risenta di questa aporia. Nel dilavare della cultura rurale e con l’affermarsi dell’urbanesimo il pet diventa un’ambivalente sintesi di queste due coordinate: così ogni tanto è un bambino da accudire e subito dopo un giocattolo che si pretende di spegnere riponendolo in cuccia.
L’animale come soggetto-di-una-vita che ha nella dimensione di specie il suo qui e ora, la sua relazione peculiare col mondo, le sue corde di cognizione sul mondo, viene di fatto negato e criptato. Tale negazione porta inevitabilmente a una perdita di valore della diversità di specie e della biodiversità come mondo, con banalizzazione del non-umano. La svalutazione delle altre specie è presente nella proposta filosofica di Martin Heidegger, per il quale l’animale povero di mondo, incapace di morire ma destinato solo a cessare di vivere, appartiene a una dimora ontica non confrontabile ma solo opponibile a quella di humanitas.
Da Botticelli a Dick
Anche la teoria neoumanistica di Arnold Gehlen, per il quale l’uomo si caratterizza proprio nella carenza di animalità , solo apparentemente svaluta Homo sapiens quale entità incompleta, mentre viceversa ha preteso di costruire un argine invalicabile tra l’essere umano e le altre specie. Si può arguire che tanta preoccupazione di ridefinire e rimarcare i confini col non-umano altro non sia che una risposta all’idea pericolosa di Charles Darwin, ma d’altro canto non possiamo ignorare che il Novecento si apre con la fuga marinettiana nel prometeismo più sfrenato che fa da battistrada a una temperie iperumanista che eleggerà la tecnoscienza quale nuova ancella al dictat antropocentrico di dominio sul mondo. Un’aspettativa che, pur foriera di nefaste conseguenze, sembra inverarsi con la rivoluzione della fisica nella prima metà e della biologia nella seconda metà del secolo breve.
E tuttavia l’antropocentrismo omologante ed emarginante – la macchina antropologica da fermare secondo Giorgio Agamben, basata sulla dicotomia umano vs non-umano – entra in crisi proprio negli anni Novanta grazie a una rivalutazione della diversità e della pluriversalità , alla messa in discussione del mito della purezza e dell’autarchia dell’umano, alla riconsiderazione critica della prospettiva antropocentrata.
Super-eroi, replicanti, alieni, cyborg fanno il loro ingresso nel proscenio identitario da nuovi protagonisti, in grado di interpretare il disagio di fine secolo e la vulnerabilità esistenziale molto meglio della kalokagatia umanistica. I personaggi che escono dai romanzi di Philip Dick e di James Ballard, dai film di John Carpenter e di David Cronemberg, dalle performance di Matthew Barney e Marcel lì Antunez Roca, dalle tele di Daniel Lee e di Karen Andersen non hanno nulla in comune con il pueromorfismo botticelliano o con la body art.
Uno slittamento si è verificato e non di poco conto: il corpo dell’uomo è diventato un palcoscenico che si presta alle contaminazioni o meglio ospita e fa agire il non-umano e solo attraverso un decentramento si disvela. L’affermazione di Donna Haraway in Manifesto cyborg che proprio nell’ibrido la condizione cangiante e limitrofica (che si manifesta e si alimenta nei bordi dell’esistenza) della contemporaneità si rivela, tratteggia più di ogni altra il tramonto dell’antropocentrismo metafisico.
L’uomo ritrova una dimensione ontologica possibile specchiandosi nel volto dell’alterità – per utilizzare, forzando un po’ la metafora di Emmanuel Lévinas – operando cioè in modo eccentrico rispetto alla gravitazione antropocentrata. La prospettiva postumanistica, già in nuce nel pensiero di autori come Jacques Derrida – che non a caso nel saggio L’animale che dunque sono mette al centro l’insussistenza della dicotomia umano vs animale – o come Gilles Deleuze, nella sua proposta di una «ontologia selvaggia», ontogenetica di differenze, ritiene infondata la pretesa umanistica di assumere l’essere umano come metrica e sussunzione del mondo.
Ci viene chiesto in buona sostanza di ripensare il modello vitruviano che pone l’essere umano come fulcro gravitazionale e contenitivo del mondo. Nello stesso tempo siamo chiamati a riformulare la fondazione stessa dell’umano, abbandonando la pretesa autarchico-autopoietica di condizione umana pensata iuxta propria principia, per ammettere il contributo delle alterità non-umane.
Ecco, allora, che la filosofia postumanistica ci propone un ribaltamento di prospettiva che può essere esemplificata partendo proprio dal mito fondativo di Prometeo ed Epimeteo, che tanta parte ha avuto nel delineare la parabola umanistica e che mette al centro l’opposizione binaria tra l’uomo e gli animali. La ritroviamo in quello che possiamo considerare il manifesto umanistico, vale a dire il De hominis dignitate di Pico della Mirandola, fino al Der Mensch. Seine Natur und seine Stellung in der Welt di Arnold Gehlen.
L’aiuto di Prometeo
Il mito vede gli animali come figli del titano Epimeteo, che ha donato loro virtù incarnate, ma così facendo li ha relegati in una posizione o rango da cui non è possibile trascendere, e gli esseri umani che, negletti da Epimeteo, hanno nel titano Prometeo il loro protettore. Prometeo consente loro di realizzare quelle stesse funzioni, che gli animali incarnano, attraverso esternalizzazioni ovvero la costruzione di strumenti (téchne), mercé l’intermediazione del fuoco, rubato agli dei per i suoi prediletti. L’essere umano viene tratteggiato pertanto come «animale carente» sotto il profilo biologico che compensa il suo miserevole stato, supera gli oneri della incompletezza originale, accedendo a una dimensione altra, quella culturale e tecnopoietica, letta come esonerativa.
D’altro canto questa teoria antropologica, che in Gehlen cerca il supporto scientifico, cozza inevitabilmente contro il pensiero darwiniano giacché risente di un retaggio creazionista: l’idea che possa darsi un’incompletezza ab origine. Nella specializzazione adattativa la carenza – letta non come incompletezza ma come esito della relazione coevolutiva – non si dà quale punto di partenza ma «si fa» allorché la specie di appoggia su un’entità co-funzionale.
In altre parole è semmai l’atto tecnopoietico a produrre carenza ovvero bisogno del supporto esterno per realizzare lo standard performativo. L’interpretazione che la téchne agisca come compensazione o esonero è pertanto un’illusione frutto della lettura a-posteriori del processo. Ciò vale non solo da un punto di vista filogenetico ma anche nello sviluppo dell’identità individuale ossia nell’ontogenesi: è stato l’avvento del cellulare a creare quel senso di mancanza che oggi avvertiamo se, per caso, lo dimentichiamo.
Il mito tradisce un’invidia dell’uomo verso le altre specie – un uomo che trova ispirazione in loro o, meglio, è trascinato da loro in altre dimensioni esistenziali: l’essere umano si avverte carente proprio perché ha avuto negli altri animali le sue referenze ideative e ontologiche. Osservando in filigrana il mito possiamo infatti leggere la tecnopoiesi come tentativo dell’uomo di riprodurre quello che fanno gli altri animali e in questo caso la pluralità culturale dell’umano diverrebbe più un dono di Epimeteo che di Prometeo.
Un sistema in divenire
Se nel volo di un uccello o nel tessere la tela da parte di un ragno, l’essere umano non vede solo il fenomeno in sé ma percepisce una dimensione esistenziale altra virtuale, e tuttavia percorribile e attualizzabile attraverso la téchne, inevitabilmente l’altra specie diviene «epifania di cultura». In lei l’essere umano si rivede e si proietta, ma così facendo accede a una dimensione esistenziale che non gli appartiene e lo decentrata. Il farsi animale dismette la veste di regressione nell’ancestrale per farsi volano di antropo-poiesi, ossia di predicati che, non presenti nel retaggio biologico di Homo sapiens, lo trasformano in un sistema in divenire aperto a qualunque contaminazione.
La filosofia riscopre la biodiversità come valore ontologico ed epistemologico, vale a dire in una prospettiva differente da quella tradizionale, che ne ha sottolineato solo l’aspetto economico o ecologico, e lo fa, per dirla con le parole di Matthew Calarco nel saggio Zoografie, ponendo la questione dell’animale al centro della riflessione filosofica.
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