Allegri e diffusi nel fare società
«Crack capitalism» si intitola il libro di John Holloway che DeriveApprodi (pp. 281, euro 18) ha appena mandato in libreria. Titolo suggestivo: è l’originale in inglese, che in spagnolo è diventato «Agrietar el capitalismo», perché in verità significa nelle due lingue «aprire crepe» o «incrinare» il capitalismo. Però, certo, di questi tempi un titolo così, anche con l’ambiguità sottintesa, arriva subito al punto: il capitalismo sta facendo «crack», e noi con esso: «Oggi, forse più che mai, il mondo è di fronte a un bivio», scrive Holloway nella prima riga della prefazione all’edizione italiana. E del resto i titoli dei libri di questo filosofo marxista che vive in Messico – insegna all’Università di Puebla – hanno una storia vivace. Il suo precedente uscito in Italia si intitolava «Cambiare il mondo senza prendere il potere», fu pubblicato da Carta e da Intramoenia nel 2004, e quella sorta di bestemmia – agli occhi di chi è di sinistra e osserva come un precetto religioso la credenza che il mondo lo si possa cambiare solo prendendo il potere – ebbe una certa fortuna. Il libro vendette molte copie, per un saggio teorico, e quando lo esponevamo nei banchetti, alle manifestazioni, le persone si paralizzavano, vedendo quel titolo, qualche volta si irritavano ed altre prendevano a sfogliare il libro.
Questo secondo libro ha avuto una storia faticosa. La sua pubblicazione si deve, oltre che a un editore corsaro come DeriveApprodi, a Vittorio Sergi, traduttore, amico e allievo di Holloway. Avrebbe anche questo dovuto essere pubblicato da Carta, senonché negli ultimi spasmi di vita del settimanale, nell’autunno del 2010, chi aveva pensato di impadronirsi di quell’agonia perse ogni interesse. Così Vittorio, traduzione alla mano, cercò un altro editore, fino a questo esito felice.
Ne valeva la pena. Holloway è uno dei capofila della corrente di pensiero – molto variegata e per così dire slegata, ma convergente – che almeno dall’inizio del millennio cerca di guardare agli innumerevoli movimenti sociali con «curiosità », come dice lo stesso Holloway, e senza pregiudizi dottrinari. Di questa corrente, cito a caso, fanno variamente parte Miguel Benasayag, lo spagnolo Carlos Taibo, il messicano Gustavo Esteva, Raul Zibechi, uno degli ispiratori di «Occupy Wall Street», David Graeber, il nostro «municipalista» Alberto Magnaghi, e moltissimi eccetera. Esiste anche un interessantissimo carteggio tra Holloway e Michael Hardt, co-autore di tanti libri con Toni Negri, che approfondisce i dissensi tra l’uno e l’altro ma soprattutto i punti di contatto; che, un po’ a sorpresa per la nostra visione vagamente settaria, sono moltissimi. A me è parso che il punto su cui discutono di più, i due, è se la rivolta, cioè la creazione di altre forme dell’economia e della democrazia, si proponga un compito «costituente», se si debba «organizzare», come pensa Hardt, o se il movimento «comunizador» (neologismo in spagnolo che Holloway inaugura in questo scambio) debba riversarsi in mille fiumi indipendenti, come è in effetti la vita personale e sociale.
A questo dibattito globale sul post-capitalismo e sul modo di arrivarci, Holloway fornisce specificamente – come in questo Crack capitalism – una interpretazione di Marx che smentisce la vulgata comunista e socialista del Novecento. La quale era dominata dall’idea che lo «sviluppo delle forze produttive», cioè un processo tutto interno all’evoluzione del capitale, avrebbe creato le condizioni per un rovesciamento dei rapporti di dominio. C’era un prima, in questa vulgata, cioè la crescita dei rapporti di produzione capitalisti e delle loro capacità tecnologiche; c’era una crisi, e l’opportunità della rivoluzione; poi c’era la costruzione di rapporti sociali di altro genere. Holloway sovverte questo schema. Che, scrive, «va contro due punti che sono stati essenziali nell’argomentazione esposta fin qui (e nella stessa argomentazione di Marx): il primo è che noi esseri umani siamo il potere creativo della società ; in secondo luogo la nostra potenza creativa non si sviluppa in modo indipendente dal suo contesto sociale ma piuttosto in una relazione di dentro-contro-e-oltre esso». Di qui le «crepe». Ossia la constatazione che il «fare» umano liberato dal lavoro astratto (quello sottoposto alla disciplina del capitale) è di per sé un atto rivoluzionario, qui e ora, e che questo sta accadendo ovunque, tanto più in una situazione in cui il capitale (dominato ora dalla finanza) si è convertito da «potenza creatrice» in un’arma di distruzione di massa.
E d’altra parte, ricorda Holloway, la Rivoluzione francese non è un atto improvviso che rovescia la società feudale, ovvero sì, la rovescia, ma come esito di un processo in cui i borghesi, i commercianti e gli artigiani, gli stessi lavoratori hanno eroso dall’interno, per secoli, le impalcature e l’ideologia dell’assolutismo. Ora, dice Crack capitalism citando gli zapatisti messicani, «camminiamo domandando», perché «non sappiamo come smettere di fare il capitalismo» (già che siamo noi a produrlo, con il nostro lavoro astratto) e «non c’è una ricetta da applicare… Non c’è una risposta giusta ma solo milioni di esperimenti… Forse la migliore risposta che possiamo dare è: “Pensate per voi stessi, usate la vostra immaginazione, seguite le vostre inclinazioni e fate quel che considerate necessario o piacevole, sempre contro-e-oltre il capitale”. Per alcuni significherà buttarsi nella preparazione per il prossimo vertice contro il G8… Altri si uniranno ai loro vicini per creare un orto comunitario». Non è quel che sta realmente accadendo, nei movimenti degli «indignados» o nelle reti dell’altra economia, nei movimenti a difesa del territorio o nelle comunità indigene dell’America latina?
Forse, modesto suggerimento, se la sinistra smettesse di cercare il «soggetto» unico e decisivo del cambiamento e vedesse che il cambiamento è già tutto intorno a noi, potrebbe lasciar perdere il lutto e vestirsi di colori allegri, finalmente.
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