Al lavoro nei cortili e in vecchie strutture «Non possiamo fermarci o è finita»

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MODENA — Gente così, intorno alla via Emilia. Il vecchio imprenditore dell’aceto che dorme accanto all’azienda. I giovani del biomedico che montano le attrezzature in cortile, il presidente del caseificio che chiude per finta. Piccole aziende, ingranaggi dei distretti locali e superstiti di filiere dimenticate, capitani di industria. Tutti dentro un’area che ormai è diventata una gigantesca zona rossa. «Lo Stato faccia la sua parte». «Tolgano la burocrazia». «Se restiamo indietro la concorrenza ci mangia». Le parole sono le stesse. Loro sono qui, e aspettano che qualcosa ricominci, subito. 
Tutti fermi 
«La zona rossa è nata stamattina. La gru qui davanti stava abbattendo gli ultimi pezzi pericolanti del capannone per metterlo in sicurezza e ricominciare. Ma l’operaio ha detto che dal Comune era arrivato lo stop». Giancarlo Pontiroli era convinto che sarebbe stata una buona giornata. La sua azienda di San Felice sul Panaro produce 160 mila ettolitri all’anno di aceto secco, venduto alle tante ditte che fanno il balsamico Igt di Modena, un marchio da 600 milioni di euro all’anno. «È un paradosso» dice Camilla, la compagna dell’imprenditore. «Riparare costa soldi, ma se non produci dove li prendi?» Ai cancelli si è presentata lei. Pontiroli ha costruito una casa davanti a ognuno dei suoi due stabilimenti. Vuole anche dormirci vicino. Ma ieri mattina non si è alzato dal letto.
San Pietroburgo chiama 
«I geometri non sono più idonei per i controlli, i Vigili del fuoco non si assumono la responsabilità . Cortesemente, qualcuno ci dice a chi dobbiamo chiedere per avere il certificato agibilità ?». I Bianchini, padre e figli, vanno di fretta. Le fiere di primavera, a Bologna e Dusseldorf, sono andate bene, un pieno di ordinativi. La loro Runner è nell’indotto del biomedico di Cavezzo, produce macchine per la riabilitazione post traumatica. Lunedì arrivano i camion da San Pietroburgo per ritirare una decine di macchine. E nell’attesa loro assemblano i pezzi in cortile, sotto a un sole feroce. Perché c’è il terremoto, ma con i clienti non si può fare brutta figura. 
Nell’acciaio 
Il primo terremoto ha fatto crollare il nuovo capannone di Luigi Mai. In una settimana ne ha trovato un altro, abbandonato. Lo ha liberato dalla cacca dei piccioni, ci ha portato i suoi 60 operai e i macchinari per lavorare l’acciaio Inox. E adesso aspetta il via libera. «Ma domenica facciamo le prime prove e lunedì ricominciamo». La sua Ptl, sede a Mirandola, 5 milioni di fatturato, fa strutture metalliche per il settore farmaceutico. È presidente degli artigiani di Modena: 16.000 imprese associate, 4.000 colpite dal sisma. «A decidere della nostra vita non saranno i soldi, ché quelli li troviamo. Abbiamo bisogno che la burocrazia si metta da parte. Perché dobbiamo ripartire subito: siamo tutti in una filiera, lavoriamo con l’estero. Con questa crisi non c’è pietà . Chi si ferma, viene sostituito. E chiude». 
Verso l’inverno 
Il giovane Pier Luigi Baroni aiuta gli operai indiani a piazzare il gazebo del controllo qualità  all’aperto. Così ci portiamo avanti, che noi del tessile ormai siamo come i Panda ma di estinguerci non è che abbiamo tanta voglia. Quest’anno va male. Solo un milione e mezzo di fatturato, colpa del mercato. La Filatura Domenico Luigi Baroni è sulla strada principale di Concordia, uno dei paesi più colpiti. Tre capannoni, 120 macchinari, e dentro non c’è nessuno. L’azienda del papà  di Pierluigi è sopravvissuta al crollo del distretto tessile che girava su Carpi. «E ce la faremo anche questa volta». I danni non sono evidenti. «Ci siamo fermati lo stesso, perché avevamo paura, noi e i nostri 40 dipendenti. Ha subito lesioni solo un capannone, ma adesso ne ho trovato un altro qui vicino». È un periodo che si ricomincia, dice. C’è stato un picco di ordini per la stagione invernale. «Magari lavoriamo anche all’aperto. Ma non devono fermarci, altrimenti ci tolgono la speranza».
Tutti a Parma 
Il presidente Luciano Dotti guarda le muffe sulle forme giovani di Parmigiano Reggiano e decide di chiedere ospitalità  ai rivali di Parma, perché il terremoto ha diviso la cooperativa a metà . La produzione è intatta, il magazzino è distrutto, ma fermarsi è proibito. La Cappelletta di San Possidonio è il più grande caseificio sociale della zona: 29 aziende agricole associate, 35 mila forme all’anno. Il terremoto ne ha rovinate almeno 40 mila.
Dotti apre la porta del magazzino. Le scalere sulle quali vengono appoggiate le forme sono accatastate una sull’altra. «Dobbiamo salvare il salvabile e così abbiamo chiesto aiuto a Parma». Producono 104 forme al giorno, ma non hanno più un posto dove metterle. «È una catena di Sant’Antonio malefica: se ci fermiamo è peggio, mandiamo in rovine i soci che ci forniscono le materie prime». Sul cartello appeso all’ingresso c’è scritto «chiuso». Ma dentro lavorano come pazzi. 
I forni spenti 
L’ultima stazione di questo viaggio è anche la più grande. Il parcheggio della Panariagroup di Finale Emilia è una desolazione. I forni sono spenti: 5 sono disallineati, le scosse hanno messo fuori asse la catena di produzione, altri 2 hanno bisogno di controlli. Giganti da 120 metri di lunghezza e un centinaio di tonnellate che sembrano inerti. Anche la Panariagroup non è certo un nano del distretto ceramico: 186 milioni di fatturato, 320 dipendenti. Danni accertati per 20 milioni. Il presidente Emilio Mussini fa una promessa. «Recupereremo lo stabilimento, e nessuno verrà  lasciato indietro. Ma lo Stato deve essere d’aiuto. A noi e a tutti gli altri, non importa se grandi o piccoli. Il Sistema Paese deve fare la sua parte. Con rapidità , perché la materia prima di cui abbiamo bisogno è questa: il tempo».


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