Addio al grande vecchio Bernheim quarant’anni al centro della finanza
MILANO – Antoine Bernheim addio. Il finanziere parigino se ne va in una clinica svizzera a 87 anni, due dopo il pensionamento forzato dalla presidenza Generali (che manteneva onoraria). Dodici anni dopo Enrico Cuccia, cinque dopo Vincenzo Maranghi, tre giorni dopo la defenestrazione dell’ad della compagnia Giovanni Perissinotto, è un altro segno – del fato questo – di un ciclo che si chiude. Il ‘900 della finanza italiana e delle sue certezze passati ai libri.
Classico personaggio di cui si perde lo stampo, tra stinte banderuole in grisaglia che inseguono gli spread, il gran borghese erede della tradizione mercantile ebraica per cui tutto si compra o si vende, orfano del lager educato dalla Shoah, seppe essere uomo a tutto tondo. Orgogliosissimo e scostante, raffinato e greve, fedele con gli amici, meno negli affari. Capiva l’italiano ma non lo parlava in pubblico, per lo sdegno d’essere stato cacciato da Generali nel ‘99, «semplicemente perché avevo trovato un lavoro a Gerardo Braggiotti». Il pupillo di Mediobanca che si era bruciato le ali presso Maranghi e riparò a Parigi alla rivale Lazard, dove Bernheim era il più famoso e ingombrante associé gérant di Michel David-Weill. L’allievo di André Meyer, di cui Cuccia fu allievo, di cui fu allievo lui.
«Poi Cuccia e Maranghi mi chiesero scusa», fece sapere; soprattutto lo reintegrarono alla presidenza del Leone nel 2002, per altri otto anni. Era suscettibile e lo ribadì due anni fa, alla decisione di Mediobanca di non rinnovarlo alla presidenza. «Un insulto, per quel che rappresento». E un insulto condito, quando apprese che la sua buonuscita per 37 anni di servizio triestino ammontava a 14 milioni, due meno di quelli che il successore Cesare Geronzi portò via per un solo anno. Si racconta che dopo l’assemblea del pensionamento si sia fermato a piangere in una saletta contigua al consiglio, come un bambino con il suo giocattolo rotto, mentre il fido Tarak Ben Ammar tentava: «Antoine, ma resterai nella famiglia e nella storia di Generali». Ma lui: «Non, ils m’ont mis dans un coin, ils m’ont tué! Je suis perdu», e scuoteva la testa, citando l’età per un pretesto, che anche Cuccia guidava l’istituto novantenne. Eppure aveva avuto tutto, dalla vita, almeno da quando a metà anni ’60 aveva scalato le posizioni di banchiere d’affari in Lazard, diventando il fulcro, con Cuccia, della galassia Mediobanca, tramite il 5% di Generali chiuso nei misteriosi forzieri di Euralux, che Lazard nel ’73 rilevò da Montedison. Nasceva allora l’asse Milano-Trieste, autoriferito e tutelato dalle mani carismatiche e sapienti dei due finanzieri.
Ieri Vincent Bolloré, capofila dei soci francesi che lui insinuò come terzo pilastro nell’azionariato Mediobanca, ha dichiarato: «Con profonda emozione ho appreso della scomparsa di un uomo che, per decenni, è stato un sostegno indefesso per il mio gruppo e un consigliere prezioso per me». La stessa cosa potrebbero dire Bernard Arnault e Claude Bébéar, che grazie all’intuito e sostegno del numero due di Lazard si imposero negli anni come leader di Lvmh e Axa, campioni del capitalismo francese. Il leader della moda mondiale ha detto: «Per 30 anni con il suo eccezionale carisma, le sue intuizioni e le sue strategie Bernheim ha plasmato l’economia europea». Tutti figli ingrati, infine; ma il suo motto preferito («la riconoscenza è una malattia del cane non trasmissibile all’uomo») li prevedeva.
Profetiche alcune sue dichiarazioni rese lasciando Trieste: «Pensate che io possa fare il dipendente di Mediobanca? Non è più soltanto lei a dirigere le operazioni: alcuni azionisti italiani consideravano chiuso il ciclo Bernheim». «Mediobanca non può dare a Generali i margini di manovra di cui ha bisogno, specie per crescere all’estero». A corollario, chiedeva da anni, in pubblico e in privato, una ricapitalizzazione a Trieste, sempre osteggiata dal suo primo socio (gli avessero dato retta).
Anche su se stesso fu profetico: «Per vivere devo far girare i neuroni e ho bisogno di lavorare. In Lazard ho visto tanti presidenti di aziende grandissime che quando incontravo magari per caso due anni dopo la pensione parevano relitti umani». Malgrado ai suoi neuroni restassero l’amato bridge e le sinecure, ha osservato la regola dei due anni.
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