Vite senza cielo nella Romania anni ’80
Un libro a lungo censurato, da cui poi è stato tratto un film di Lucian PintilieSi dice che dove ci sono i topi non ci sia il gas. Nelle miniere i topi sono infatti i primi a sentire l’accumularsi dei gas tossici emanati dal carbone. Tra i corridoi che si estendono per chilometri, nelle profondità della valle del fiume Jiului, in quel retro-mondo nel sud della Romania che, a poco a poco, spingeva l’essere umano ai limiti dell’animalità , i topi erano i migliori, forse gli unici amici dei minatori. C’è da stupirsi, si chiedeva nei primi anni Ottanda Rasvan Popescu, se «spinto entro certi limiti, quancuno vada oltre»?
Nato a Bucarest nel 1962, Popescu è scrittore, sceneggiatore di fama, figura importante nella cultura non solo letteraria della Romania. Ma, prima di tutto, è stato ingegnere minerario e nelle miniere della Valle ha vissuto e lavorato. E ha visto qualcosa che non lo ha lasciato indifferente. Nasce da qui il suo interesse, tutt’alto che di facciata, per quel «mondo senza cielo» che lo ha portato a scrivere i racconti di Subomul (L’essere subumano), nel 1993 e, l’anno successivo, il romanzo breve Omul cu cioc si gheare (L’uomo con il becco e con gli artigli). Del 1996 è invece la sua opera pricipale, Prea tà¢tziu (Fundesac, traduzione di Marco Cugno, Bonanno editore, 2010), trasposta nell’omonimo film di Lucian Pintilie premiato a Cannes quello stesso anno. Abbiamo incontrato Popescu a margine del Salone del Libro di Torino, dove domani discuterà dell’uscita del suo imminente lavoro, il seguito, quindici anni dopo, di Prea tà¢tziu.
Lei è tornato nella valle Jiului, un luogo che, dopo il breve onore riservato dalle cronache, nel 1989, sembra nuovamente sprofondato su se stesso, come se non esistesse o, peggio, nulla fosse cambiato, nemmeno dopo la chiusura delle miniere. Perché questo ritorno?
Facciamo un salto nel passato. Prima di «tornare» all’oggi, torniamo agli anni Ottanta. Nel 1987, mi sono laureato presso la Facoltà di Geologia e sono stato inviato nelle miniere di Valea Jiului e qualcosa è cambiato in me. Durante il periodo comunista del regime Ceausescu, il tirocinio professionale di tre anni era obbligatorio, ma quello nella valle era ben più che un tirocinio. Significava prendere coscienza di un inferno. Sono arrivato a Valea Jiului strappato da casa, buttato a forza di legge a centinaia di chilometri, in capo a un mondo ostile. Non c’era nessuno ad aspettarmi, nessuno a volermi e ad aver bisogno di me in quel posto. Ero desolato in una terra desolata. Ho cercato di rinchiudermi in me stesso e di aspettare la fine del tirocinio. Il monolocale che ho ricevuto all’ultimo piano di un ostello, il matrimonio che era appena all’inizio, tutto ciò mi proteggeva come un guscio. Tuttavia la sofferenza intorno a me era talmente forte, che sono stato addirittura invaso, tirato fuori da me stesso e trascinato nell’ignoto. L’indifferenza ha rotto l’indifferenza, come il simile, spesso, respinge il simile… Ho cominciato a osservare, a guadare e a stupirmi. Come era possibile quel mondo? Un mondo di cui non avevamo coscienza e nemmeno gli abitanti sembravano averne. Tanto più grande fu la mia sorpresa, vedendo che la gente in quei sotterranei non sembrava affatto consapevole del male che l’aveva inghiottita. Camminavano a testa bassa, come agnelli portati al macello…
Oggi le cose sono cambiate, ma non tanto. Soprattutto si è persa memoria di ciò che è stato quello che Ceausescu definiva il più grande «laboratorio multietnico» della Romania.
Sì, le cose sono cambiate, ma la gente della Valle è gente che non ha mai avuto fortuna. Il suo destino, ora, è in mano al più devastante degli effetti collaterali della globalizzazione: il crimine globalizzato, il lavoro sotto pagato, la pratica del falso, l’economia che solo per lavarci la coscienza chiamiamo «parallela». Uscito allo scoperto, il loro mondo è rimasto quello che era: un inferno. In Fundesac ho comunque compiuto un lavoro di raccolta di immagini, informazioni, stati d’animo trasfigurati in un romanzo dal tono «poliziesco». Figuratevi un mondo in cui ci sono più gallerie sotto terra che non strade in superficie, nella città . Gente che non conta nasce nella colonia miniera, gioca sui treni di carbone della stazione, va alla scuola miniera, poi scende ogni giorno sotto terra per decine di anni. Il lavoro è sfibrante, con la pala, il piccone e la dinamite, come nel secolo scorso. Lavorano al buio, mezzi nudi, neri per il carbone perfino sul bianco degli occhi, avvolti in un calore soffocante. Gli incidenti li decimano: frane e esplosioni lasciano intere famiglie senza sostegno, perché nelle miniere di Valea Jiului non lavorano che i mariti. Le donne a casa, ad aspettarli. Ma è un’attesa che dura anni. Coloro che raggiungono l’età della pensione muoiono poco dopo, malati ai polmoni. Ma quando muoiono, come segno grottesco dei tempi, vengono salutati solennemente sull’ultimo cammino dalla fanfara. Ho avvertito il bisogno di mettere questo mondo su carta, di portarlo alla luce. L’ho sentito come un obbligo morale. Mi sono detto: il mondo deve sapere come vivono questi condannati sotto i nostri piedi.
Il volume, però, prima che nella forma del romanzo, venne scritto come un reportage di denuncia…
Sognavo di fare il giornalista, cosa che poi ho fatto nella vita. Il libro che scrissi si intitolava Un mondo senza cielo. Ma gli editori hanno rifiutato il mio manoscritto. Andavo da una casa editrice all’altra e mi veniva data la stessa risposta: «ci dispiace, ma non è possibile, è ben scritto ma non lo possiamo pubblicare». Ho cercato di stamparlo a spese mie presso una casa editrice specializzata in esordi, ma la censura ha funzionato anche in quell’occasione. Nel regime comunista non si poteva pubblicare un reportage su «un mondo senza cielo». Tutto doveva essere luminoso e portare la speranza, mentre io scrivevo sulla disperazione. Ho provato allora a ingannare la censura. Dire la stessa cosa, ma nella veste di un libro di finzione. Valea Jiului è diventata Fundesac. È il nome di una via senza uscita, dove se rimani troppo a lungo soffochi. Il gas minerario, il grisù, ti avvelena. Cadi in un sonno profondo e non ti svegli . Io credo che l’immagine del «cul-de-sac» definisca molto bene quello spazio fuori dal mondo rappresentato dalla miniera.
La capacità di un romanzo, però, è anche quella di prefigurare e lasciar immaginare, mentre un reportarge spesso rischia di incepparsi sulla pura esposizione di dati, informazioni, «fatti», notizie…
Per sfuggire alla censura, esplicita o implicita che fosse, ho inventato un personaggio intorno al quale ho tessuto la trama del romanzo. Il mio eroe si chiama Costa, un investigatore arrivato per indagare una serie di incidenti, di morti sospette nel sotterraneo, che sembrano crimini in serie. Alla fine – e questo solo un romanzo poteva permettermi di dirlo – Costa e, spero, anche i lettori, non scoprono un omicida, bensì un sistema omicida. Un sistema che ha messo gli uomini in condizioni-limite. E li ha spinti a diventare subumani.
Come è avvenuto l’incontro con Lucian Pintilie?
Durante il regime di Ceausescu, Pintilie è andato in esilio e ha lavorato per molti anni a Parigi. Dopo il crollo del comunismo, lui era in cerca di un argomento «romeno» da trattare e si è soffermato sul romanzo che avevo scritto. Si è appassionato come lettore. Io ho scritto la sceneggiatura e ho partecipato alle riprese, così come faccio con tutti i miei film. Ne ho firmati sette. Quando sono arrivato con l’equipe a Valea Jiului, abbiamo fatto un sopralluogo e sono sceso con il regista nella miniera. Lui non c’era mai stato, sotto terra. Ci siamo trascinati per gallerie infangate, accanto ai minatori, e così il regista ha scoperto da sé quell’inferno sotterraneo. Quando siamo usciti fuori, mi ha detto che dovevamo assolutamente fare questo film. Non «dobbiamo fare un film», ma «questo» film. Farlo perché dobbiamo fare qualcosa. Prima che sia troppo tardi, appunto.
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