Vince «a sorpresa» il nazionalista Nikolic Le responsabilità  Ue

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Eppure il primo turno del 6 maggio avrebbe dovuto far riflettere: Tadic e Nikolic avevano una percentuale equivalente, rispettivamente il 25,31% e il 25,05%. Una «sorpresa» – il manifesto titolava il 5 maggio: «L’ombra nazionalista sulla Serbia umiliata» – e uno smacco per il presidente uscente Boris Tadic, tantopiù che era sceso in campo direttamente dimettendosi e anticipando all’improvviso di un anno le presidenziali anche per pesare sul voto di politiche e amministrative. Dove il vero vincitore, con il 16%, è stato il Partito socialista di Ivica Dacic, ministro degli interni del governo filo-europeo emanazione di Tadic. Un Dacic forse neopremier in pectore , visto che Tadic, riconoscendo la sconfitta, dichiara: «Non sarò io il premier». Stavolta in una coalizione tra democratici e «socialisti» – è lo stesso partito che fu di Milosevic – ma in coabitazione coatta con la presidenza Nikolic. Tomislav Nikolic, leader dell’opposizione conservatrice, dal 2008 ha duramente rotto – fino ad essere minacciato di morte – con i Radicali serbi dell’ultranazionalista Vojslav Seselj (ora in carcere all’Aja per crimini di guerra), è presidente del Partito del progresso serbo, nazionalista e conservatore. Ma in campagna elettorale e anche ieri Nikolic ha insistito: «La Serbia deve restare nel percorso europeo» ma allo stesso tempo «non abbandonerà  i suoi concittadini in Kosovo e Metohija» (Metohija, terra della chiesa ndr ). L’obiettivo è «un paese moderno, che sviluppi la propria economia. Che si liberi di povertà , bassi tassi di natalità , corruzione. Con amici in tutto il mondo». È bene ricordare che al secondo turno ha votato solo il 47% dei circa 7 milioni di elettori: l’astensione è il vero fenomeno «vincente» anche in Serbia. Non ha convinto comunque la parola d’ordine di Tadic: «Con me avrete l’Europa e il Kosovo», con riferimento alla terra storico-identitaria dei serbi che invece ha dichiarato unilateralmente l’indipendenza nel febbraio 2008. Il risultato «a sorpresa» è un messaggio all’Unione europea, che ha rimandato all’infinito l’adesione per accettare due mesi fa per la Serbia solo lo «status di paese candidato». Ieri si sono affrettati a contratularsi anche i leader europei Barroso, Van Rompuy, la Ashton e lo stesso Napolitano. A rincorrere le congratulazioni entusiaste di Putin. Il Kosovo è sempre il buco nero. La sua indipendenza priverebbe la Serbia del 15% di territorio, fondativo anche secondo la nuova Costituzione voluta dallo stesso Tadic, e che è diventato un’arma di ricatto dei governi europei che, pur divisi, riconoscono in maggioranza l’indipendenza di Prishtina. A partire da Angela Merkel che ha insistito fino a poche settimane fa nel diktat a Belgrado: «O riconoscete il Kosovo o niente adesione all’Ue». Chi semina ricatti ora raccoglie il risultato di Nikolic. A che è servito l’avere impedito come Ue, Nato, Eulex e Onu, il voto nelle enclave serbe in Kosovo dove si è votato solo grazie alla disponibilità  in extremis dell’Osce e in un clima di «guerra» vigilato da 6mila militari della Nato? Non è bastato a Tadic nemmeno appellarsi «alla stabilità  macroeconomica del paese, all’aumento della competitività  della produzione sui mercati esteri con l’incremento dei posti di lavoro». Non è bastato neanche il comizio pro-Tadic dell’ad del Lingotto Sergio Marchionne a Kragujevac, sede degli «investimenti» Fiat sostenuti da massicci aiuti statali serbi. Anche perché finora i cosiddetti investimenti esteri hanno fatto crescere solo diseguaglianza, miseria di larghi strati della popolazione, arricchimento di pochi e corruzione dilagante. La destra conservatrice e nazionalista ha fatto leva su questo e ha vinto. La sinistra qui, come altrove, non c’è. E l’Ue, ora alle prese con le sue interne spinte «balcaniche» e nazionaliste nella crisi del capitalismo globale, nei Balcani e a Est non è mai stata così impopolare.


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