Vertice Nato, l’annuncio di Obama “La guerra in Afghanistan sta finendo”

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CHICAGO – «Stiamo portando questo conflitto alla conclusione, responsabilmente. Arriva la data in cui la guerra in Afghanistan, come la intendevamo, è finita. Presto gli afgani prenderanno in mano il proprio destino. La transizione è irreversibile». Lo annuncia con solennità  Barack Obama alla conclusione del vertice Nato nella sua Chicago. La metà  del 2013 è «la pietra miliare per porre termine a un conflitto durato 11 anni». E’ nella città  dove ha costruito la sua carriera politica, che il presidente americano riunisce il più ampio vertice nella storia dell’Alleanza atlantica, per marcare il rispetto di un patto che lui siglò con i suoi elettori, e che fu decisivo nella sua ascesa alla Casa Bianca. Ma la promessa è mantenuta solo formalmente? Lo stesso Obama avverte che «non c’è un punto di svolta preciso, stiamo parlando di un processo, ci saranno ancora momenti brutti». Sul vertice di Chicago oltre alla pioggia e alle manifestazioni di protesta, si addensano altre tensioni: al primo posto il «gelo» con il presidente pachistano Asif Ali Zardari, prima invitato al summit, poi snobbato da Obama. I dirigenti della Nato assicurano che la chiusura dei transiti tra Afghanistan e Pakistan, decisa da Zardari per protesta contro la strage di 24 militari pachistani causata da un drone Usa il 26 novembre scorso, è una crisi in via di soluzione. Ma intanto Obama ha evitato un vero incontro bilaterale col leader di un Paese divenuto inaffidabile soprattutto da quando si scoprì che dava asilo a Osama Bin Laden.
Uscire dall’Afghanistan, dopo la ripresa economica è questa la promessa più difficile da mantenere per Obama. Il calendario è stato confermato ieri: conclusione del «ruolo da combattimento» delle forze Nato entro fine 2014, preceduto dal «trasferimento della responsabilità  per la sicurezza nazionale» all’esercito afgano entro metà  2013. Quelle due date consentiranno di iniziare a riportare a casa 23.000 soldati americani già  fra 4 mesi. Su questo piano incombono incognite interne ed esterne: in Afghanistan la variabile più minacciosa resta la capacità  offensiva dei talebani che può cambiare la situazione sul campo; poi c’è la cronica inaffidabilità  del governo Karzai e delle sue forze armate sempre più infiltrate da elementi anti-Nato; infine il ricatto del Pakistan che esige un «pedaggio» di un milione di dollari al giorno per l’uso delle sue vie di transito nel rimpatrio delle forze Nato. Per questo i generali Usa sottolineano la «flessibilità » implicita in quel passaggio di Obama sulla fine della guerra «come la intendevamo»: vogliono avere mani libere per cambi di tattica sul terreno. Il fronte interno per Obama non è più facile. Il presidente è stretto in una tenaglia di critiche, da sinistra e da destra. Nel suo elettorato c’è una base pacifista che nel 2008 premiò Obama contro Hillary Clinton nella nomination democratica proprio perché l’allora senatore dell’Illinois aveva preso le distanze più nettamente dalla politica di George Bush.
Ora una parte di quella base si sente rappresentata da alcuni slogan dei manifestanti venuti qui a Chicago, che accusano Obama di «soggezione alla lobby industrial-militare», e incassano un successo simbolico costringendo alla temporanea chiusura l’odiata Boeing, che ha il quartier generale in questa città  ed è un pilastro della tecnologia bellica made in Usa. Un’accusa di segno opposto viene rivolta a Obama dal suo rivale per la Casa Bianca.
Il candidato repubblicano Mitt Romney ha scelto il vertice della Nato per scrivere un editoriale sul Chicago Tribune. Nell’articolo il candidato della destra accusa Obama di indebolire la difesa con i tagli di 487 miliardi di dollari spalmati su un decennio. Romney accusa inoltre il presidente di fare un’operazione elettoralistica, scadenzando il rientro dei 23.000 soldati appena due mesi prima del voto. I margini di manovra del presidente, per mantenere la promessa di un disimpegno senza scoprire pericolosamente il fronte afgano, sono ridotti dai Paesi europei che alle prese con l’austerity rimpiccioliscono sempre di più i propri contingenti e i propri aiuti finanziari. Emblematico il caso francese: Franà§ois Hollande ha promesso ai suoi elettori di anticipare alla fine di quest’anno il rientro dei 3.300 soldati transalpini, e anche dopo l’incontro con Obama e l’intesa sul fronte economico non ha avuto alcun ripensamento su questo punto.
Per l’Italia il ministro degli Esteri Giulio Terzi ha confermato l’impegno a un contributo annuo di 120 milioni di euro per l’Afghanistan.


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