Una ricchezza fondata sulle nuove schiavitù

by Editore | 23 Maggio 2012 8:07

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C’è un paradosso nella cultura maggioritaria affermatasi nei paesi di immigrazione, i paesi «ricchi» o che tali vengono vissuti da chi abbandona il proprio alla ricerca disperata di un futuro. Si sostiene che la mobilità  degli esseri umani privi di carte di credito e di diritti possa essere accettata purché sia compatibile con la domanda di lavoro nei paesi «ospitanti», salvo casi eccezionali che comunque andrebbero ridotti al minimo. Ciò vuol dire che è l’economia, praticamente la finanza, a degradare la politica a portinaia armata delle sacre frontiere: se c’è bisogno di braccia si aprano le porte, altrimenti le si serrino. È una visione intollerabilmente mercantile, disumana, che pure mette il lavoro al centro dell’identità  del migrante. Al tempo stesso, però, nel momento in cui l’essere umano viene ridotto ad appendice della produzione di merci o servizi lo spoglia di ogni identità  e dignità , e la sua nuda capacità  lavorativa viene utilizzata per deprivare altri lavoratori di diritti. Movimenti planetari Il dumping sociale è stimolato come motore del profitto e in assenza di una risposta globale e di una capacità  di internazionalizzarsi dei sindacati, il dumping diventa anche motore di un’eguaglianza al ribasso tra lavoratori indigeni e migranti incentrata sulla riduzione progressiva dei diritti, che li rende più simili tra di loro in una condizione di ipersfruttamento quando non addirittura di schiavitù. Spinti, però, a combattere tra di loro dentro un conflitto che non è più verticale tra capitale e lavoro ma orizzontale, a tutto vantaggio del capitale. Diritti umani, diritti civili e diritti sociali non sono separabili. Non lo sosteneva un pericoloso rivoluzionario ma l’ex segretario generale della Cgil Sergio Cofferati al tempo della grande battaglia in difesa dell’articolo 18. Che oggi si stia arretrando sul versante dei diritti lo dicono molti esempi, non ultimo la mancata rivolta contro l’ennesimo tentativo di un governo sostenuto da quasi tutti di mandare in pensione lo Statuto dei lavoratori. Ma se si allarga lo sguardo e si analizzano i processi in atto a livello globale si scopre che, per fortuna, la storia non è finita e le contraddizioni esplodono, come contraddittorie sono le risposte. Il libro di Vittorio Longhi La rivolta dei migranti (:duepunti edizioni, pp. 184, euro 15) parla di schiavitù, sfruttamento, ma anche di battaglie per i diritti e cioè di dignità  dei lavoratori migranti, in alcuni casi più propensi al conflitto di quelli indigeni, come nel caso dei latinos nel sud degli Stati uniti. Il sottotitolo del volume appena uscito prefigura, attraverso esperienze di lotta, «un movimento globale contro la discriminazione e lo sfruttamento». Longhi, che i lettori del manifesto hanno avuto occasione di apprezzare attraverso una felice rubrica sul lavoro e i conflitti nel mondo, si è specializzato negli ultimi anni sulle norme e le politiche internazionali del lavoro e ha tenuto corsi ai giornalisti dei paesi terzi per conto dell’Oil (Organizzazione internazionale del lavoro, l’agenzia delle Nazioni Unite). La rivolta dei migranti racconta le lotte di questi lavoratori nei paesi del Golfo Persico che attraggono manodopera dall’Asia, dall’Estremo e dal Medioriente, negli Stati Uniti dove un muro della vergogna separa «la domanda» dall’«offerta», in Francia e in Italia. Più note sono le lotte in Francia – basti ricordare l’occupazione delle chiese – e in Italia – la ferita di Rosarno è ancora aperta – così come molto si è letto anche su queste pagine sulla caccia all’uomo al confine Usa-Messico e sulle grandi manifestazioni per il lavoro e i diritti nel sud degli Usa, da dove è partito lo sciopero dei migranti: «Un giorno senza di noi». Meno conosciuta è invece la lotta per l’emancipazione da uno sfruttamento che rasenta la schiavitù nei ricchi paesi del Golfo, dove ci sono Emirati e città stato in cui i migranti rappresentano la maggioranza degli abitanti, pur costretti a vivere la condizione di paria. L’oscura transizione Il Burj Khalifa di Dubai, che ospita l’Hotel Armani con camere da 700 euro a notte, è il grattacielo più alto del mondo e, al tempo stesso, «la rappresentazione ideale di un modello di sviluppo basato sul capitalismo consumistico, sul lusso e la ricchezza ostentata». Chi l’ha costruito ha lavorato e vissuto in condizioni disumane per 150 euro al mese, senza diritti, ferie e permessi. Peggio di questi operai vivono e lavorano soltanto le colf, anch’esse provenienti dall’estremo Oriente: peggio, perché possono contare soltanto su una rarissima solidarietà  internazionale delegata esclusivamente alle organizzazioni umanitaria, nella quasi totale assenza delle organizzazioni sindacali. Solo alcuni dei tanti casi di violenza anche sessuale e di torture ai danni delle donne provenienti dalle Filippine o dall’Indonesia hanno avuto l’onore delle cronache e ciò ha costretto gli stati «esportatori» di manodopera femminile di assumersi qualche responsabilità , pur restando sostanzialmente inalterato il meccanismo criminale di reclutamento e sfruttamento della forza lavoro. La torre di Dubai non è importante soltanto per la sua altezza ma anche per gli scioperi che ne hanno accompagnato la costruzione a partire dal 2006, con un picco nell’anno successivo quando 30 mila migranti hanno scioperato per 10 giorni consecutivi per strappare un aumento salariale del 20%. Questi e altri scioperi hanno ottenuto talora risultati positivi, a costo dell’espulsione di chi più si è battuto ed esposto con l’obiettivo di un’emancipazione collettiva dei lavoratori. La crisi ha peggiorato le condizioni di vita dei lavoratori stranieri: solo nel 2008 negli Emirati si sono suicidati 143 indiani, e ancora 133 nel 2010. A maggio del 2011 Athiraman Kannan, operaio indiano di 38 anni, dipendente della Arabtec che lo pagava 150 euro al mese per 12 ore di lavoro su sei giorni settimanali, si è lanciato dal 147Ëš piano del grattacielo dopo che il suo superiore gli aveva rifiutato un permesso per tornare in India in seguito alla morte del fratello. L’impressione, leggendo le cronache e le analisi di Longhi sostenute da un ricco lavoro di ricerca e dati sulle modifiche dei sistemi legislativi, è di vivere una fase di difficile transizione che mostra picchi positivi e pesanti ritorni all’indietro, culturali e politici, in un contesto di crisi globale del liberismo. Il caso italiano è il più studiato in questo libro e, per i lettori del manifesto, il più conosciuto: Dalle battaglie dei migranti nelle campagne del nostro Mezzogiorno, tra conquiste e pogrom razzisti, agli accordi dei nostri governi con la Libia (quella di Gheddafi ieri, quella di oggi non si sa di chi) per delegare ad altri il lavoro sporco ai danni dei migranti. Le leggi dei respingimenti Un ricordo forse troppo rapido rimanda alle prime leggi per il controllo dell’immigrazione targate centrosinistra – ricordate la TurcoNapolitano? – il cui discutibile intento e le cui conseguenze rischiano di essere dimenticate dopo le politiche devastanti del centrodestra e l’introduzione del reato di clandestinità . Il destino di migliaia di migranti, ieri albanesi e oggi africani, affogati o respinti dalle nostre coste, non cambia se la filosofia dei restringimenti, delle reclusioni e delle espulsioni è la stessa. Chiunque ci sia al governo. Non ci viene in mente soltanto la nave albanese speronata e affondata con tutto il suo carico umano a bordo nel canale di Otranto ma anche la legge firmata da un ministro di centrosinistra, Burlando, che consentiva la stipula di contratti di lavoro previsti nei paesi d’origine del personale viaggiante sulle navi. Una rottura della solidarietà  e dell’uguaglianza tra lavoratori che svolgono le stesse mansioni, decisa mentre la Fiom si batteva per imporre nei cantieri navali contratti uguali per i dipendenti di tutta la filiera produttiva, qualunque fosse il paese d’origine delle ditte appaltatrici.

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