Una resistenza tradita ricostruita con flashback
Tra l’altro è interessante che questo passaggio sia comune a diversi documentaristi della sua generazione – Loznista è nato nel 1964 – pensiamo in Italia a Leonardo Di Costanzo, Alessandro Rossetto, Alina Marazzi, tutti alle prese con il loro primo lungometraggio. Con In the Fog , il regista bielorusso torna sulla Croisette, nuovamente in gara. Tratto dal romanzo omonimo di Vasyl Bykau – e il passaggio dalla pagina scritta allo schermo è uno dei motivi ricorrenti in questo festival, da Cosmopolis di Cronenberg a Io e te di Bertolucci – scrittore bielorusso dissidente, considerato la coscienza della nazione. Nella Bielorussia occupata dai nazisti la resistenza è poca, e repressa ferocemente. Qualcuno tradisce e consegna ai tedeschi i nomi dei partigiani che hanno fatto saltare un treno. Il presunto colpevole è l’unico tra gli arrestati a non essere stato impiccato. Addirittura gli hanno permesso di tornare a casa. Il comandante partigiano, certo della sua colpa manda i suoi uomini a prenderlo per ucciderlo. Siamo durante la seconda guerra mondiale ma potremmo essere in un contesto qualsiasi anche contemporaneo che mette in gioco il significato di «scelta morale»: come è possibile rispondere a una necessità morale quando intorno non esiste più alcun riferimento, e la situazione permette ogni gesto, anche il più osceno. È la pressione della realtà a determinare questa perdita, o è piuttosto la condizione umana a essere potenzialmente tale? Loznista procede per astrazione, concentrando il suo sguardo sui tre personaggi principali, il presunto traditore, l’amico di infanzia che è venuto a prenderlo per ucciderlo, il partigiano che lo accompagna, tre tipologie narrative, il giusto, il codardo, il martire. E questa esplorazione dell’animo umano coincide con la fuga dei tre uomini messi alla prova a ogni passo dalla presenza nemica. I flashback ricostruiscono quanto è accaduto in modo frammentato, senza dare certezze: come i protagonisti anche lo spettatore è lasciato nel dubbio, immerso in un’investigazione che piano piano lo coinvolge in prima persona. L’immagine di un viaggio nei territori dell’umano era anche la materia del film precedente, e sembra essere la poetica del cinema di Loznista, che qui torna in un luogo chiuso, soffocante, anche se siamo all’aperto, in un bosco, in cui rinchiude i suoi personaggi. Gli attori sono filmati da vicino, in una struttura che quasi li soffoca, come se il movimento dello sguardo ne dichiarasse l’assoluta impossibilità di fuga. Nella luce scura, confusa dalla nebbia, i tre procedono quasi morti viventi, senza uno squarcio di cielo, su quel campo di battaglia esistenziale che condanna l’umanità . Le immagini di Loznista sono potenti, di bellezza raggelata, che l’astrazione narrativa, esaspera quasi deducendone la sostanza. Eppure, al tempo stesso, dichiarano qualcosa di pretenzioso, un’assenza di verità , come se infine la metafora e la metafisica delle scelte del film girassero un po’ a vuoto. L’impressione è che anche Loznista sconti quel sistema di coproduzione europea in cui vengono intrappolati molti registi, specie chi viene da paese in cui la produzione cinematografica è poco supportata. C’è una tendenza autoriale da «grande festival», che ha distrutto molti cineasti, e non utilizzo il termine come spesso accade nelle ditribuzioni, in cui la definizione «film da festival» coincide con film troppo poco in connessione col mercato. Al contrario il film d’autore da festival sembra essere un formato che piace al sistema europeo Media ecc, e questo spiega un po’ la mancanza di note eccentriche nelle selezioni più giovani anagraficamente come la Semaine de la critique, in cui le opere prime sembrano un po’ tutte ingabbiate con lo stesso marchio. È un processo rischioso, in cui anche i cineasti più indipendenti (mentalmente) rischiano di perdere la loro particolarità .
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