Un New Deal europeo per la crescita la sfida del neo-presidente a Berlino

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Il sogno di Franà§ois Hollande è un New Deal alla francese. L’idea rimbalza da un giornale all’altro, dalle radio ai teleschermi, spinta dai collaboratori del neopresidente, al punto da apparire la prima grande sfida nazionale dopo l’ancora calda elezione del capo dello Stato. La realizzazione di quel sogno, più un’esigenza che un auspicio, è in effetti l’obiettivo iniziale del neo presidente, messo subito di fronte agli urgenti problemi della crisi. Ed è per questo che, appena insediato nel palazzo dell’Eliseo, il 16 maggio andrà  a Berlino per incontrare Angela Merkel, dalla quale dipende, in larga parte, il varo del New Deal. Il quale, nel caso dovesse vedere la luce, non potrà  essere che europeo. Ad aspettare con impazienza l’esito di quell’incontro è dunque l’Europa, depressa per l’economia che non cresce o non cresce abbastanza, ferita dalla disoccupazione e inquieta per le conseguenze sociali e politiche.
Franà§ois Hollande pensa ovviamente al New Deal di Franklin Roosevelt, al grande programma di infrastrutture che il presidente americano lanciò arrivando alla Casa Bianca dopo la crisi del ’29, al fine di riassorbire la disoccupazione e stimolare l’economia esangue. A quasi un secolo di distanza il neo presidente francese propone il finanziamento a livello europeo di grandi progetti industriali e ambientali. La proposta, espressa in un memorandum, si articola in quattro punti: investimenti nelle infrastrutture, nelle nuove energie e nell’industria attraverso prestiti europei ad hoc; un aumento della capacità  di finanziamento della Banca europea di investimenti; un recupero dei fondi strutturali non utilizzati; e una tassa europea sulle transazioni finanziarie. Franà§ois Hollande avanzerebbe inoltre, come supplemento, proposte ancora più controverse: un rafforzamento del ruolo della Banca centrale europea e una mutualizzazione dei debiti sovrani attraverso eurobond. 
Angela Merkel rifiuta o arriccia il naso. È pronta adesso ad accogliere “a braccia aperte” il neo presidente, ma il suo portavoce ripete che il Trattato di stabilità  (Fiscal compact) firmato da venticinque Paesi, sui ventisette dell’Unione europea, non può essere rinegoziato, come desidera Franà§ois Hollande. Alcuni parlamenti l’hanno già  ratificato, altri si apprestano a farlo. E c’è l’Irlanda che ha indetto un referendum per approvarlo. Non si può inoltre sfuggire all’austerità  di cui quel Trattato è il rigoroso codice.
La parola crescita è risuonata di recente in più capitali, anche a Berlino epicentro del rifiuto, ma sulle labbra dei conservatori europei essa assume un significato riduttivo, poiché dovrebbe essere stimolata anzitutto con le politiche di rigore e di liberalizzazione economica, in particolare quella del mercato del lavoro. Non con un New Deal di stile rooseveltiano, cioè attraverso investimenti, come pensa Franà§ois Hollande. 
Sulla Frankfurter Allgemeine Zeitung di domenica, il ministro liberale degli esteri, Guido Westerwelle, ha detto che il governo tedesco è disposto ad aggiungere al Trattato di stabilità  un patto di crescita separato per accrescere la competitività . In tal caso non si violerebbe l’intoccabile trattato. Ma i limiti di questa soluzione sono precisati, sullo stesso giornale, dal ministro delle Finanze, Wolfgang Schaeuble. Il quale dice che la strategia europea comporta già , fin dall’inizio, due punti chiave per combattere le cause originarie della crisi: la riduzione del deficit e le riforme tendenti a migliorare la debole competitività . Cosi si può creare la crescita. La quale non può che scaturire dal rigore. Anche la cancelliera ha parlato di crescita, sabato, sulla Leipziger Volkszeitung. Ha detto che sta preparando un’agenda apposta per il vertice europeo di giugno. Ma essa si limiterà  ai principi tedeschi e non esaudirà  le richieste francesi.
Franà§ois Hollande vuole di più. Ma le iniziative che propone, per rianimare i settori della società  europea più colpiti dalla crisi e dai drastici rimedi per contenerla, provocherebbero soltanto un fuoco di paglia, secondo gli interlocutori tedeschi. C’è chi intravede tuttavia qualche spiraglio nel discorso di Angela Merkel. Sull’aumento delle risorse della Banca europea degli investimenti avrebbe manifestato una certa disponibilità . Sarebbe un primo passo: un segno positivo in direzione del neo presidente in arrivo. Per i più ottimisti si tratta addirittura di una svolta. Durante la campagna elettorale Angela Merkel rifiutò di ricevere il candidato socialista e si espresse in favore di Nicolas Sarkozy, poi sconfitto. 
Franà§ois Hollande è un grande esperto in compromessi. È un negoziatore sottile. Paziente e in egual misura tenace. E per quanto incalzata dall’opinione pubblica tedesca, che non vuol dar soldi agli europei spendaccioni, Angela Merkel è, a giudizio degli esperti nella materia, abbastanza europeista da resistere, col tempo, a quegli umori. Una volta non lo era. Era giudicata un’euroscettica. Indifferente ai progetti dei suoi grandi predecessori.
La conversione è apparsa chiara quando si è rivolta, di recente, a una platea di giovani, nella cornice del Deutsches Museum di Berlino. In quell’occasione ha parlato di unione politica europea proprio come faceva Adenauer, e ha disegnato un quadro istituzionale che, nonostante i numerosi punti rimasti nebbiosi, corrisponde al pensiero federalista del suo iniziatore e maestro Helmut Kohl. Di lui ha citato la formula «l’unità  tedesca e l’Unione europea sono due facce della stessa medaglia». La cancelliera ha dunque ripreso i temi classici del pensiero dei padri fondatori. E in questo pensiero era ben radicata la regola che i rapporti con la vicina Francia sono fondamentali per l’Europa e la Repubblica federale. La storia l’insegna e la geografia l’impone.
Franà§ois Hollande parte dunque per Berlino, dove affronterà  la sua prima importante prova, lasciandosi alle spalle un paese economicamente vulnerabile; ma nella solida, invulnerabile Germania non dovrebbe trovare un’Angela Merkel arroccata in un’austerità  che non ammette cedimenti. Avrà  davanti una cancelliera fortunatamente vincolata a principi irrinunciabili, che non le consentono di lasciare a lungo le società  europee senza la speranza che, nella crisi, suscita la prospettiva di crescita. Insomma un compromesso sarà  inevitabile. Il neo presidente ha con sé il prestigio del suo paese e la solidarietà  di molti europei. 
Le divergenze tra Berlino e Parigi sono destinate a essere provvisorie. E talvolta salutari. L’esperienza dimostra che le effimere reciproche infedeltà , tra le due sponde del Reno, lasciano uno spazio di manovra agli altri paesi dell’Unione. Il “Merkozy” era soffocante. Arrogante. Arido. Non aveva idee. Era regolato da un rapporto di forze che metteva il presidente al servizio della cancelliera. Senza ricordare a quest’ultima la frase che lei stessa ha declamato ai giovani tedeschi nel Deutsches Museum di Berlino, e cioè che «l’unità  tedesca e l’Unione europea sono due facce della stessa medaglia». E anche che la prosperità  tedesca si appoggia in gran parte sui suoi alleati e clienti europei.


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