Un indisponibile blocco nero nelle metropoli affluenti

by Editore | 29 Maggio 2012 7:01

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Sono tornati. E subito sono stati sbattuti in prima pagina in quanto «nemici pubblici». D’altronde, gli anarchici non hanno mai goduto di ottima stampa, ma diventare nell’arco di una manciata di mesi un pericolo per la democrazia è uno dei misteri che affonda le sue radici nell’associazione mentale che stabilisce un’equazione tra anarchia, violenza e caos. Da quando la Fai, la fantomatica federazione anarchica informale, ha rivendicato l’attentato genovese a un dirigente dell’Ansaldo, i quotidiani italiani non hanno fatto che vedere lo spettro dell’anarchia a ogni angolo di strada. E di domenica è la diffusione di un documento della Fai che annuncia azioni di sabotaggio durante le olimpiadi londinesi nella prossima estate. 
Al di là  delle semplificazioni dei media è indubbio che nei movimenti sociali occidentali – nel Sud del mondo, è tutta un’altra storia – l’anarchia è spesso evocata per indicare pratiche sociali e politiche libertarie che hanno un largo consenso. Negli Stati Uniti, sono libertari o anarchici molti gruppi che, da Seattle in poi, hanno animato la critica al neoliberismo, il movimento contro gli interventi militari in Iraq e Afghanistan. E frettolosamente anarchici sono stati definiti anche i blacks bloc statunitensi o canadesi. Anarchico è stato qualificato anche il «blocco nero» comparso nei vari appuntamenti del movimento noglobal in Europa. Se si leggono i testi, volantini e fanzine da loro prodotti è però difficile stabilire un rapporto di discendenza di queste esperienze e attitudini dall’anarchismo storico. Sono infatti esperienze e attitudini metropolitane cresciute durante la fasce ascendente del neoliberismo e al complementare declino dei gruppi della nuova sinistra sviluppatesi negli anni Settanta del Novecento. Quando si dice nuova sinistra non si allude ai partiti della sinistra comunista o socialdemocratica, bensì a quei filoni teorici e politici nati in discontinuità  con le culture politiche del movimento operaio durante il Sessantotto. Con realismo si può scrivere che dopo la sconfitta di una prospettiva rivoluzionaria in Occidente che non avesse nulla a che fare con il socialismo reale di ispirazione sovietica o cinese, l’antagonismo al capitalismo ha fatto proprie la critica l’antistatalismo e la propensione a sperimentare forme di democrazia diretta proprie dell’anarchismo storico.
Affinità  sovversive
I punti di contatto tra il passato anarchico e il presente di alcune componenti dei movimenti sociali si esauriscono nella comune avversione verso le forme di democrazia rappresentativa che hanno nello Stato il loro azimut. Per il resto, sono più le differenze che le ripetizioni. Una buona sintesi di queste differenze emergono nell’opera di David Graeber, antropologo alla Yale University fino al 2007 e ora docente all’Università  di Goldsmith a Londra. Attivista di lungo corso, Graeber è stato indicato dai media americani come uno teorici del movimento noglobal statunitense negli anni Novanta e indicato come un leader di Occupy Wall Street. Autore di molti saggi – Toward an anthropological theory of value: the false coin of our own dreams (Palgrave), Lost people: magic and the legacy of slavery in Madagascar (Indiana University Press) – è spesso intervenuto nelle «discussioni di movimento» con interventi diffusi su Internet – in Italia è apparso un suo lungo articolo nel volume collettivo Affinità  sovversive (DeriveApprodi) – mentre è prevista per la fine di maggio la pubblicazione di Debito (Il Saggiatore), una ponderosa monografia sul ruolo del debito nello sviluppo del capitalismo. 
Di grande interesse per capire appunto il presunto renaissance anarchico sono però due saggi usciti in queste settimane. Si tratta di Critica della democrazia occidentale (Eleuthera, pp. 119, euro 10) e La rivoluzione che viene (Manni editore, pp. 179, euro 10). In entrambi i casi, Graeber contrappone una concezione libertaria dell’azione politica alla visione dominante della democrazia e del ruolo dello stato, senza tralasciare frecciate e prese di distanza dalle esperienze anche eterodosse del pensiero critico di matrice marxiana o da, e questa è una vera novità , dalle tesi antitutilitariste molte diffuse nei movimenti sociali francesi e, più recentemente, in quelli italiani. 
Per l’antropologo statunitense, la democrazia rappresentativa coincide con l’espropriazione del potere del popolo di prendere decisioni sulla gestione della cosa pubblica. Da qui, la valorizzazione del «processo consensuale dei movimenti» quale modello di democrazia diretta. Per chi ha frequentato o partecipato all’esperienza dei movimenti noglobal non ha difficoltà  a comprendere cosa Graeber intenda. Le decisioni nei movimenti si prendono attraverso una discussione che tenda a mettere in relazione proposte differenti, puntando a costruire un ampio consenso attorno non a una delle proposte, ma a una sintesi che nasca all’interno, appunto, della discussione. Questo non significa che non si manifestino maggioranze e minoranze, ma la decisione finale sia incardinata su elementi ampiamente condivisi, lasciando ampia libertà  a tradurre operativamente come meglio si crede ciò che è stato deciso.
Un pensiero di confine
Non c’è dunque sintesi superiore, ma solo condivisione, convergenza, lasciando ampia libertà  ai «gruppi di affinità » la gestione delle pratiche di lotta. Questo significa che «il processo consensuale» è espressione di un «pensiero di confine» in base al quale la contaminazione tra posizione e forme di lotta non solo è contemplata, ma auspicata. Il motto che meglio rappresenta questo pensiero di confine è lo zapatista «consenso e conflitto», dove il consenso è condizione necessaria per agire il conflitto, dimenticando tuttavia che spesso è il conflitto a costruire il consenso e non viceversa. In ogni caso, è una visione che ha i suoi pilastri nel rifiuto della delega, di qualsiasi organizzazione gerarchica, di indifferenza verso appunto la «sintesi dell’uno», il peccato originale del pensiero politico moderno che ha condotto il movimento operaio a una subalternità  verso la democrazia capitalista. 
Temi che trovano uno sviluppo nella Rivoluzione che viene, raccolta di saggi scritti in un arco temporale che va dal 2001 al 2011. Dieci anni che hanno sì sconvolto il mondo, ma non nel modo auspicato dai movimenti sociali. Graeber, ad esempio, assume la polarità  «vittoria-sconfitta» come cartina di tornasole di una visione processuale dei movimenti sociali, respingendo così tanto la loro lettura ciclica che la concezione che li vede come variabile dipendente dal sistema politico. Per l’antropologo statunitense, i movimenti sociali sono sia forme specifiche di azione politica, ma anche sperimentazioni di come dovrebbe funzionare la società  senza la presenza dello Stato. Posizione che lo porta ad affermazioni paradossali, come quella che i movimenti sociali, nel 2001, hanno vinto perché sono riusciti a mettere in crisi i piani del neoliberismo, delegittimando la triade sovranazionale – Wto, Fmi e Banca Mondiale – che ha garantito l’ordine liberista. Una vittoria a cui non è però seguita nessuna modifica dei rapporti di forza nella società . 
Legami pericolosi
Per quanto riguarda invece le esperienze degli indignados e di «Occcupy Wall Street» Graeber ha pochi dubbi. Sono movimenti plurali, eterogenei, ma tuttavia accomunati proprio da un libertarismo radicale e anticapitalista. Una sorta di radicalismo politico che, nella visione che ne dà  Graeber, non fornisce però elementi indispensabili per dirimere il nodo di quell’elemento fondamentale dell’agire politico che è la contingenza. Non si tratta della centralità  o meno del quesito sul «che fare», bensì dei link tra il divenire dei movimenti e le loro forme di organizzazione. E tra la costituzione materiale e il ruolo delle costituzioni formali nel garantire la riproduzione del modello sociale e economico che si è soliti qualificare come neoliberista.
L’attitudine anarchica è quindi la risposta ribelle alla crisi delle culture politiche radicali cresciute in discontinuità  con il movimento operaio, ma che ripiega su una visione statica e astorica del modo di produzione capitalistico. Il capitalismo proposto in questi saggi non contempla la stagione neoliberista. E neppure l’intreccio tra precarietà , intelletto generale e finanza. Tuttavia sarebbe sciocco respingere come ingenuità  politica quanto Graeber sostiene sulla necessità  di immaginare forme di democrazia radicale che sostituiscano quelle dominanti. David Graeber è un compagno di strada con cui fare un tratto del cammino, con la reciproca speranza che non si perda la direzione di marcia decisa in quel strano momento in cui si decide la rottura dell’ordine costituito.

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