Tra Piazza Tahrir e il partito del divano

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Oggi per la prima volta si vota davvero per un presidente. Tre candidati su 13 rappresentano gli attivisti. Il più noto è Khaled Ali, 40 anni, avvocato che difende gratuitamente i diritti dei più poveri. E che per la campagna elettorale non ha neppure un budget L’inquilino del piano di sotto minaccia di andare dalla polizia. Non è più tempo di Mubarak, dice sicuro, non è più tempo di soprusi. Gli gocciola acqua in casa. Sono tre giorni che è stato chiamato l’idraulico, ma ancora non è arrivato. Sono ore di orgoglio e libertà , in Egitto. Per la prima volta, si vota davvero per un presidente. Ed è ovunque aria di festa, più che di competizione: l’importante è partecipare. È il cambiamento che niente potrà  cancellare: a ogni angolo si discute di politica. Senza più paura. Eppure, gli unici che non hanno la minima possibilità  di vincere sono proprio i protagonisti della rivoluzione. Quelli che hanno costruito piazza Tahrir non con Facebook, ma in anni e anni di battaglie – battaglie e carcere, come i ragazzi del Movimento 6 Aprile. La data, era il 2008, ricorda la feroce repressione delle manifestazioni nel distretto operaio di Mahalla. La loro icona è Khaled Ali, quarant’anni, avvocato noto per difendere i diritti dei più poveri senza mai chiedere una parcella. Per la sua campagna elettorale non ha neppure un budget: quando è necessario comprare qualcosa, si fa una colletta. Solo altri due candidati, su tredici, sono stati tra gli animatori di Tahrir: sono entrambi deputati di lungo corso, Hamdeen Sabahy e Abul-Ezz el-Hariri. Che non ha un ufficio: l’appuntamento, per incontrarlo, è all’Ismailia House, l’ostello degli studenti zaino in spalla. Vive lì. «Formalmente non sosteniamo nessuno», spiega Ramy el-Swissy, uno dei fondatori del 6 Aprile. «Ci limitiamo a boicottare Ahmed Shafiq». Ultimo primo ministro di Mubarak, in carica nei giorni di Tahrir, è l’uomo del Consiglio supremo delle forze armate. Insieme a Amr Moussa, già  ministro degli Esteri di Mubarak e presidente della Lega araba, è l’espressione di un regime che tenta di riappropriarsi del paese con il pretesto della stabilità . Del ritorno alla normalità . «La crisi economica è drammatica. Il turismo, che ancora teneva, è al collasso. La rivoluzione è finita a luglio, quando piazza Tahrir è stata sgomberata tra gli applausi dei commercianti», nota amaro Wael Abbas, il blogger che ha mostrato al mondo i filmati delle torture. «Siamo capaci di opporci, ma non di proporre. Di governare». Moussa è dato per certo al ballottaggio. Nelle foto ufficiali, guarda severo dall’alto. Se Khaled Ali e Hamdeen Sabahy sono circondati da attivisti, egiziani che hanno voglia di contare, non solo di essere contati, Moussa e Shafiq camminano fra nugoli di giornalisti, tra mendicanti che vengono prontamente ascoltati alla prima telecamera che si accende. Ma la stabilità  è anche la promessa dei Fratelli Musulmani. Il comizio conclusivo del loro Mohamed Morsy sembra un concerto di Vasco. Maxischermi, gadget, fasci di luce azzurra a illuminare il cielo del Cairo come lo skyline di New York. E soprattutto, un servizio d’ordine da Partito comunista degli anni ’70. Un’immagine di disciplina, affidabilità , sicurezza – la stabilità  che deriva dall’organizzazione, non dalla repressione. Partecipano a migliaia, e i corrispondenti stranieri si affrettano ad appuntare sui taccuini la separazione rigorosa, donne a sinistra uomini a destra. Esattamente come dal laico Khaled Ali, però: anche lì, la prova microfono è un Allah Akhbar . «Sono qui, non segregata in casa», taglia corto Kabira Hesham, un dottorato in fisica. «In arabo shari’a non significa legge, ma strada. Direzione. E il Corano, ai tempi di Maometto, ha migliorato la condizione delle donne». E in effetti i salafiti, che si sono visti squalificare il loro Hazem Salah Abu Ismail, che proponeva l’instaurazione di un imprecisato stato islamico, perché sua madre ha cittadinanza straniera – statunitense – non votano Morsy, ma Abdel Moneim Aboul Fotouh, un medico che ha lasciato i Fratelli musulmani per correre come indipendente, e raccoglie consensi trasversali. Incluso quello di Wael Ghonim, il dirigente di Google simbolo della rivoluzione. «Si perde tempo a discutere di shari’a e non shari’a », obietta. «I problemi sono altri, a cominciare dalla costituzione e dall’economia. Lo scontro non è tra laici e islamisti, qui, ma tra rivoluzione e restaurazione». Se dovesse vincere Moussa, i ragazzi del 6 Aprile torneranno a occupare Tahrir. Altri, però, dicono che rispetteranno il risultato: in fondo è questa, dicono, la democrazia. Soprattutto, non bisogna dimenticare che solo il 60% degli egiziani ha votato alle legislative: è quello che chiamano il partito del divano, più forte dell’Islam: quelli che stanno a bordocampo a guardare. Perché piazza Tahrir non è una piazza, in realtà , ma una strada a tripla corsia, tranci d’erba transenne, rotatorie, cavalcavia. Diventa una piazza solo quando trabocca di persone. Solo allora gli ostacoli, le barriere non si notano più, e da luogo distratto di passaggio diventa luogo di aggregazione, partecipazione – rivoluzione. E per ora, quando Khaled Ali chiude il suo comizio, e i ragazzi ritmano il ritornello del 25 gennaio, «via il regime», i clacson travolgono subito ogni voce. Il partito del divano ha fretta, in cerca di qualcosa da portare ai figli per cena – chiede di passare.


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