Tagli e disoccupazione al 23% anche la locomotiva catalana è arrivata sull’orlo del crac

by Editore | 20 Maggio 2012 12:08

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BARCELLONA – L’hanno chiamata “tassa iPhone” e sono i 360 euro che dovranno versare tutti gli studenti degli istituti professionali per contribuire a ripianare il deficit della Generalitat della Catalogna. Irene Rigau, assessore all’Istruzione del governo autonomo, l’ha varata basandosi sulla cifra media che spende un ragazzo di sedici anni per usare uno smartphone. Ed è uno dei tanti balzelli a cui si dovranno abituare i catalani per difendere la loro storica autonomia dal governo centrale di Madrid. In un anno, il presidente catalano, Artur Mas ha varato tre piani di austerità : l’ultimo in questi giorni prevede tagli al bilancio per 4,7 miliardi, circa il 20% del totale, e colpirà  ospedali, scuole, impiegati pubblici, tv locale, treni. Così dopo aver perso il campionato di calcio, la Champions, e Pep Guardiola, Barcellona è costretta a mettere in discussione una volta per tutte anche i simboli più cari della sua orgogliosa diversità  dal resto della Spagna. «Altrimenti rischiamo di finire come la Grecia», ha detto un preoccupato Artur Mas mentre Moody’s tagliava al livello di “titoli spazzatura” i bonus sul debito emessi dalla regione.
Come la Grecia o anche peggio perché ciò che hanno veramente temuto i leader politici locali nelle ultime settimane era di essere messi sotto tutela da Mariano Rajoy, il presidente del governo nazionale, e di dover rinunciare alle numerose competenze che il sistema dello Stato Federale concede alle autonomie. E, in particolare, a quella del governo catalano che, a differenze di altre regioni, ha sviluppato tutte quelle che la legge consente. Le forme sono un po’ cambiate ma tutti ricordano quando Jordi Pujol, storico leader dell’autonomismo e presidente della Generalitat per 23 anni dal 1980 al 2003, se ne andava in giro per il mondo come se fosse un capo di Stato, con la sua bandiera e una politica estera a sua misura. Oggi però la casa barcolla e Barcellona è costretta ad accettare il peso dei tagli, i più sostanziosi fra tutti quelli delle regioni di Spagna. Cinquemila insegnanti in meno, il ticket sulle ricette mediche e sui ricoveri in ospedale, meno 5% nelle buste paga degli impiegati pubblici (già  colpiti da altri tagli), la sforbiciata dei contributi agli asili nido e al bilancio di radio e tv regionali in lingua catalana, riduzione dei trasporti e privatizzazioni di imprese pubbliche. Una sferzata inevitabile – secondo Artur Mas – che avrà  l’effetto di ridimensionare alcune velleità  autonomistiche ma farà  senz’altro crescere il rancore locale verso l’odiata Madrid. 
D’altra parte la crisi si assomiglia in tutto il paese e neppure la ricca Catalogna, terra di banchieri, industria e turismo, che da sola vale quasi il 20% di tutto il Pil spagnolo, ne è esente. Basta un dato: sei anni fa i disoccupati in Catalogna erano il 6,6%, oggi sono quasi il 23%, poco meno che nel resto del paese. Lo scontro con Madrid gira intorno alle tasse. A differenza di altre autonomie storiche, come Navarra o i Paesi Baschi, la Catalogna non ha una sovranità  fiscale. Le tasse vanno allo Stato centrale e poi ritornano sotto forma di contributi del governo nazionale alla comunità  autonoma. Contributi che variano di anno in anno a seconda della capacità  “di ricatto” delle forze politiche locali. E oggi sono al minimo anche perché Barcellona per finanziare nei prossimi mesi il suo debito ha bisogno degli “Hispabond”, buoni avallati dalla copertura dello Stato centrale. Un meccanismo che aumenta le tensioni e rafforza il sentimento indipendentista. “Catalonia is not Spain” è uno slogan che si può leggere facilmente sui muri da queste parti: ormai il 45% dei catalani è favorevole all’indipendenza. Erano solo il 25% vent’anni fa.

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