Sveva Casati Modigliani “Mi leggono le donne dai 12 ai 90 anni e vado in classifica dai tempi di Moravia”

by Editore | 25 Maggio 2012 9:40

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Incrollabile Sveva. Mai la minima flessione. È uscito da poco il nuovo libro della Casati Modignani, Léonie: un nome ritagliato da Proust per una tipica storia “sveviana” d’amore e di famiglia (villona lombarda, dinastia di industriali, griglia di rapporti pieni di segreti). Una mega-soap approdata alla terza edizione e alle duecentomila copie in un paio di settimane. Ora, al solito, Sveva veleggia in cima alle classifiche. Per l’ennesima volta, questa settantacinquenne signora milanese dal pomposo nom de plume – il vero nome è Bice Cairati – si dimostra un mastino del longseller, che in una trentina d’anni di trame sospirose, dialoghi “anticati” da fotoromanzo e sfondi ambientali di disarmante schematicità  (debuttò nell’81 con Anna dagli occhi verdi, e Léonie è il suo ventitreesimo romanzo), ha venduto undici milioni di libri e conquistato traduzioni in venti paesi. Sul versante della prolificità  e della tenuta commerciale, non c’è un Eco o un Camilleri o un De Carlo che le tenga testa. E fa sempre centro senza pubblicità , snobbata da recensori e premi letterari. 
«Me ne infischio dei riconoscimenti», dichiara lei con voce flautata. «Se dovessi scegliere tra un premio e la frase appena regalatami da una donna in un iper-mercato di Varese, non avrei dubbi. Mi ha detto: oggi potevo comprare un chilo e mezzo di lesso oppure il suo romanzo. Ho preso il libro, è ovvio. E che i miei figli rinuncino al lesso. L’avrei applaudita». 
Signora Sveva: negli anni Ottanta, stando in classifica, se la vedeva con Moravia. Ora, nella lista dei bestseller, gareggia con Del Piero. I tempi corrono, ma lei non cambia. 
«Ho cominciato piano, sommessa, narrandomi storie e scoprendo quanto mi divertivo a farlo. Poi mi sono accorta che i lettori godevano con me. Scrivere mi dà  un piacere enorme e credo d’infonderlo nelle mie pagine. Non capisco gli autori che soffrono scrivendo. Ma via, che cambino mestiere».
Si è interrogata sui motivi del suo successo?
«Nei miei libri si avverte sincerità . E gusto genuino dell’affabulazione. C’è la musica classica e ci sono le canzonette. Io sono brava nelle seconde. A volte le storie mi piacciono così tanto che non vorrei sprecarle mettendole su carta. L’ho detto al mio editore mentre immaginavo Léonie: ho in mente un libro così bello che quasi quasi non te lo do…». 
Qual è stata la sua formazione?
«Vengo da una famiglia modestissima. Fu mio padre, un commerciante, a introdurmi alla letteratura. Ero una bambina e lui mi leggeva Gian Burrasca, Pinocchio, Les histoires du Petit Nicolas. Poi ho letto Verne, Salgari, Rafael Sabatini. In seguito ho scoperto Gorkij, Dostoevskij, Tolstoj, Balzac, Dumas, La Fiera delle Vanità  di Thackeray…».
Quando iniziò a scrivere?
«Prestissimo. Da piccola firmavo racconti per il giornalino parrocchiale. E il parroco rifiutava i miei finali tragici. Gli diedi la novella di un bambino che moriva alla fine, e lui mi disse: no! Dobbiamo aprire una finestra sulla speranza! Aveva ragione. La vita è troppo scarsa di lieti fini. Meglio provvedere».
Happy end anche per Léonie, con svelamento del rispettivo amore tra la protagonista e il marito Guido, dopo i tradimenti. Possibile? Realistico? Tagliato con l’accetta? Non crede che l’amore sia cambiato?
«Macché. Pensi ad Anna Karenina. Non è una vicenda attualissima? Legga le cronache sui giornali. Cambiano approcci e modalità , ma non i sentimenti. Comunque ogni storia d’amore è per me una maniera di riflettere una società ». 
Dunque si riconosce nella definizione di “rosa-sociale”?
«Non amo le etichette. Faccio romanzi d’intrattenimento. Ripercorro gli ultimi decenni italiani attraverso figure femminili: operaie, mondine, borghesi, femministe… Le donne sono più sorprendenti e complesse degli uomini, piatti e lineari, sempre simili a loro stessi». 
Amore e sesso: c’è n’è in ogni suo libro. Ma il secondo è mascherato, celato, dato per implicito.
«Esplicitarlo non serve. L’interessante sta nei preliminari, cioè nell’arrivarci. Il sesso di per sé non è elegante».
Ha iniziato lavorando come giornalista a La Notte. È stato utile?
«Sì. Per capire quanto sono curiosa (adoravo le interviste e ne ho fatte ai Beatles, a Joséphine Baker, all’ex re d’Italia Umberto) e per comprendere che non era il mio mestiere». 
Non le piaceva? 
«Detestavo che mi correggessero i pezzi. Una volta descrissi un vecchio che amoreggiava col suo quartino di vino, e trovai pubblicato che sorseggiava il quartino. Stravolgimento inaccettabile». 
Oggi ha uno stile di scrittura così semplificato da essere elementare.
«Sono semplice per non far sentire mai il lettore un idiota. Odio gli autori criptici e intorcinati. Se una cosa è bella deve piacerti subito. Poi disquisirai sui dettagli. È faticoso ottenere la semplicità . Sapesse quanto riscrivo per arrivare a quell’immediatezza».
I primi romanzi li scrisse con suo marito, Nullo Cantaroni.
«A darci fiducia fu Tiziano Barbieri, artefice degli hit di Sperling & Kupfer, che per la nostra coppia inventò lo pseudonimo Sveva Casati Modignani. In realtà  ero io a scrivere. Nullo correggeva. Poi fu vittima di una forma precoce di morbo di Parkinson e restò malatissimo per vent’anni. Morì nel 2004. Anche quand’era malato gli leggevo i testi, che lui commentava e criticava. Lo fa persino ora che non c’è più. È un tale rompicoglioni che non riesco a scrollarmelo di dosso».
Il nome Nullo fa pensare a un tipo dimesso. 
«Tutt’altro! Dovevo sgusciare tra le maglie del suo autoritarismo per sopravvivere. Il nulla è lo zero, cioè l’assoluto, e Nullo era un assolutista».
Chi sono i milioni di fan di Sveva? 
«Donne soprattutto. Dai dodici ai novantadue anni, di ogni categoria sociale. Agli incontri che faccio in giro per l’Italia vengono ad ascoltarmi donne magistrato, immigrate, ragazze che fanno tesine sui miei romanzi… Chi piange, chi si confida, chi mi dona un canovaccio, una pattina, un portapane con scritto: Sveva ti amo. È forte la loro affinità  con Sveva».
Parla di Sveva come se fosse diversa da Bice, cioè da lei. 
«Bice è pigra. Sveva è attiva e viaggia per parlare con la gente dei libri. Bice sta a casa. Sveva si relaziona e promuove. Ma è Bice che racconta e scrive».
Da dove prende le storie?
«Dalle persone. Io so ascoltare. Attingo dagli incontri. Non ho fantasia. Non potrei scrivere una fiaba e non sono una filosofa. Non avrei potuto inventare Harry Potter».
La sua Léonie coltiva per decenni una relazione con un amante, Roger, con cui ha un unico appuntamento annuale in un romantico albergo sul lago. E ogni volta ritrovano la stessa passione. Improbabile…
«Così improbabile che è una storia vera! Me l’ha confidata un professionista romano conosciuto tempo fa. Era un marito fedele e aveva una bella famiglia, ma da trent’anni amava una signora con cui s’incontrava di nascosto solo un giorno l’anno, facendo scorta per gli altri 364. Che culo quel Roger!, ha esclamato mio fratello leggendo Léonie. In tanti fantasticano un amore così, fatto al novantanove per cento di sogno. Perché senza i sogni non esiste gioia».

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