Strage di Brindisi. Chi è “Stato”?
Le bombe nei cassonetti, le vittime innocenti, le tensioni sociali. Ci sono elementi che possono rimandare facilmente al periodo sanguinoso delle stragi, al periodo in cui il terrore indirizzava sgomento e consensi. Ci sono anche differenze, questo è certo. L’Italia di oggi è diversa da quella di allora, il contesto internazionale è radicalmente cambiato, le spinte ideologiche non sono più quelle di un tempo. E allora? Che pensare? Come reagire?
La reazione più naturale è quella dello sgomento, dell’indignazione, del dolore generico, del caos emotivo. Le istituzioni partono a raffica con le dichiarazioni di condanna, quelle dichiarazioni di plastica che di solito fanno seguito ad avvenimenti di questo tipo, anche se – e questo va detto – nessuno aveva mai pensato, nella storia di un Paese comunque abituato a tragedie, di colpire volontariamente coloro che più di tutti rappresentano la parte più innocente –e più colpita- della società : i ragazzi. Colpire il futuro, colpire l’incolpevolezza, sacrificare agnellini sull’altare dell’infame guerra.
In molti parlano di rappresaglia di mafia, di Sacra Corona, di risposta territoriale della criminalità organizzata, sebbene le modalità della vergognosa azione non ricordino per nulla il modus operandi mafioso. La data è quella del ventennale dalla morte di Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, e degli uomini della scorta.
Giovanni Falcone e Francesca Morvillo, nomi simbolo dell’Italia ferita, nomi ai quali la scuola brindisina è stata intitolata. I tiggì si rincorrono in edizioni straordinarie, volte a ricondurre tutto ad una matrice semplice, che possa incanalare facilmente tutto lo sdegno di un paese tramortito. Ma la matrice semplice non c’è. Le ore passano, in un brulicare di facili richiami alla pena di morte.
L’arte maieutica del tremendo gesto sembra completare la sua missione: tirare fuori ogni sentimento grezzo, spremere le viscere e far uscire l’intolleranza, come unica risposta. Si sa, la pancia è cattiva consigliera, quando viene sollecitata. E le bombe infami, la violenza inspiegabile, gettano sempre le fondamenta per un controllo totale e subdolo.
Alcuni tentano di collegare l’episodio alla recrudescenza eversiva che proprio in queste settimane sembra essere tornata di moda, dopo l’attentato ad Adinolfi a Genova. La violenza sul manager dell’Ansaldo, seppur barbara e anacronistica, pur faticando moltissimo a trovare una giustificazione plausibile, può avere dei prodromi di comprensione, in fette minoritarie della popolazione. Questa no. Questa non fa parte della cosiddetta “escalation”. Questa è una risposta, al massimo. Ѐ follia allo stato puro, ed è difficile se non impossibile trovare una spiegazione. Ѐ un segnale prettamente simbolico, che difficilmente ci consegnerà qualcuno su cui riversare tutto il nostro odio di rappresaglia.
Alla luce di tutto ciò, pare evidente che, negli ultimi mesi, l’Italia sia entrata in un’epoca profondamente diversa da quella a tinte rosa pastello, propria del ventennio berlusconiano. Pare altrettanto evidente che la violenza diventi la principale protagonista, quando l’acqua sale e lo spazio per l’ossigeno è sempre più stretto. Perché se è vero che nel paragone con gli anni di piombo si può cadere in facili fraintendimenti, accostando l’arido periodo odierno ad un periodo di florida partecipazione sociale come quello, è altrettanto vero che una situazione di disagio economico, sociale, identitario –oggi, come allora- ha come naturale sbocco lo scontro tra individui. Ed è altrettanto naturale pensare a come ci si possa facilmente lasciar influenzare, una volta che il pensiero razionale fa le valigie e se ne va di casa, perché la ragione –si sa- a lasciare l’abitazione ci mette qualche secondo, e non di più.
Inutile avvilupparsi in contorti ragionamenti secondo cui la bomba in un cassonetto davanti a una scuola abbia un senso. Perché l’effetto voluto pare sia proprio questo: trascinare il consenso verso l’ologramma di un nemico immerso nella nebbia, che dev’essere per forza nemico condiviso da tutti, senza alcuna (impossibile) giustificazione. Come quando si spara in aria, per disperdere la folla, e per avere il controllo della situazione. Ovviamente, al posto dei colpi in aria, si usa la violenza. Perché la violenza è lo strumento principale per creare qualsiasi forma di obbedienza. Diceva Karl Popper:
E in che cosa consiste fondamentalmente un modo civilizzato di comportarsi? Consiste nel ridurre la violenza. È questa la funzione principale della civilizzazione ed è questo lo scopo dei nostri tentativi di migliorare il livello di civiltà delle nostre società .
Questa è l’azione che ci si dovrebbe attendere da un qualsiasi buon governo, che sia tecnico, o politico. Dovrebbe, appunto. Perché qui la violenza aumenta, giorno dopo giorno. Qui, in questo paese all’impasse, il governo da mesi non sta facendo altro che aumentare spasmodicamente l’elettricità nell’aria, a forza di battute infelici, e risposte assolutamente inadeguate alla temperatura ormai bollente del termometro sociale.
Mario Monti si schiera a favore di Equitalia e giudica il suicidio per motivi economici come atto quasi fisiologico; Anna Maria Cancellieri promette di intasare le strade di militari armati, per far fronte alla “violenza terrorista”, mentre classifica l’orrore di Brindisi come “fatto anomalo”; Gianni De Gennaro, ex capo della Polizia durante i fatti di Genova, dopo aver evitato la condanna per aver coordinato le forze dell’ordine in “uno dei più gravi episodi di sospensione della democrazia in uno stato civile dal secondo dopoguerra”, si trova ad esser nominato sottosegretario. Insomma, le istituzioni premono con forza sulla stessa linea che fingono piuttosto male di voler sedare.
Questi protocolli fanno parte di una strategia ben precisa di guerra psicologica: tassazione non equa, inflazione alle stelle, allarmismi, recrudescenze in ogni ambito, sono in sostanza strumenti adatti per preparare un terreno su cui il cittadino sarà ben accetto ad assorbire qualunque richiesta, impegnato com’è a far fronte a mille difficoltà , paure, e angosce.
La crisi sembra espandersi, e sta per coinvolgere tutta la sfera sociale. Dopo il flusso di terrore economico, arriva il flusso di terrore vero e proprio. Perché? Perché, come disse lo stesso Mario Monti in una recente intervista, «la crisi è necessaria per crescere, per fare passi avanti».
Ora, è evidente che, ripercorrendo a ritroso la storia di questo paese (ma anche quella internazionale) si può riscontrare facilmente come ogni periodo di trasformazione sia anticipato da un periodo di crisi. Quando si crea la crisi, il meccanismo psicologico è sempre uguale: insicurezza, precarietà e apprensione. E a pensarci bene, insicurezza, precarietà e apprensione generano sempre cariche di aggressività . Questo lo si può notare nel quotidiano, ad esempio quando si attende il risultato di un esame, o quando siamo in uno stato di agitazione: in questi casi è molto facile avere alterchi anche con chi usa nei nostri confronti un tono pacato. Siamo di fronte ad una catena, in cui la crisi genera angoscia, l’angoscia genera aggressività , l’aggressività genera terrore, il terrore genera sottomissione.
Gustav Le Bon, con il suo Psicologia delle Folle del 1895, aveva già inquadrato come la massa (o il controllo su di essa) avrebbe recitato un ruolo di estrema importanza nelle vicissitudini politiche di un intero secolo, e più. Un’opera – quella di Le Bon – d’importanza fondamentale, compendio immancabile sulla scrivania di qualsiasi capo di stato:
La moltitudine è sempre pronta ad ascoltare l’uomo forte, che sa imporsi a lei. Gli uomini riuniti in una folla perdono tutta la forza di volontà e si rimettono alla persona che possiede la qualità che ad essi manca.
E per farsi ascoltare, a volte c’è bisogno di teatralità , di scalpore. Anche perché le fondamenta di queste teorie sono costantemente applicate, sebbene il prototipo di capo di stato odierno non incarni la figura del dittatore. Cambiano gli abiti, cambiano i tessuti, cambia la forma. Non cambia la sostanza. Come una madre che grida per far cessare i bisticci tra i figlioli, come gli spari in aria per rimarcare attenzione.
Come le minacce, come la paura diffusa ad arte, per ottenere risultati. Si pensi alle farsi di molte mamme, usate per mandare i pargoli a dormire: “Se non vai a dormire chiamo il lupo cattivo”. Eccolo, il lupo cattivo: è arrivato. Ha fatto saltare in aria una giovane vita, ne ha mandata un’altra a lottar contro la morte, ha sconvolto il nostro ordine mentale. Un ordine rincorso a fatica in giorni difficilissimi, e ora a rischio smarrimento, preso a morsi in testa dalla crisi globale, che ora è pure armata fino ai denti. Qualcuno direbbe: «Crisi? Necessaria per fare dei passi in avanti». Sì, verso il baratro, probabilmente.
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