Sotto l’incubo di Sarajevo il gesto anarchico di Rahima

by Editore | 24 Maggio 2012 7:00

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Bella e raggiante accanto ai due protagonisti, Marija Pikic (Rahima) e Ismor Gagula (Nedim), 23 e 14 anni, Aida racconta se stessa nel film cupissimo di un dopo-guerra mai terminato. Rahima lavora nelle cucine di un lussuoso e losco ristorante, il padrone violento le dà  meno di 500 euro di paga con la quale deve mantenere il fratello adolescente, sono orfani. Macchina a mano, il film corre dietro la ragazza incappucciata (perfino in casa), dura e implacabile con se stessa, «Cerca di truccarti un po’, anche se porti il velo non vuol dire che sei morta!» gli sbraita contro il boss, e lei se ne va in giro nella notte della città , sola, impregnata dell’eco dei bombardamenti, un motore a scoppio, fuochi d’artificio, un tuono. Sarajevo è ancora dentro l’incubo e Rahima deambula sotto il cielo plumbeo pensando a come tirar fuori dai guai il fratellino che diserta la scuola, rubacchia al supermercato ed è implicato in traffici sporchi. Perché porti il velo? le chiede un’amica con i capelli al vento. «Perché ho le orecchie a sventola». Rahima in realtà  cova la sua «diversità » come un gioiello, è lì, sentinella feroce, a presiedere la Bosnia in una transizione senza fine, dentro una Sarajevo divisa e che si guarda sospettosa. Flash-back sparano immagini sgranate del conflitto ’92-’95, non solo bombe ma anche feste in famiglia, alla ricerca di una «normalità » impossibile. Tutto è corrotto intorno a Rahima, a cominciare da un bellimbusto di ministro che le propone di «aggiustare» un certo contenzioso con una passata nel suo letto. Nedim ha distrutto l’i-phone del suo prepotente rampollo negli incontri scolastici di boxe quotidiana, e «costa tre mesi del mio stipendio». Il ragazzino è preso di mira anche se non porta il velo. «A causa delle sue convinzioni religiose, Rahima è perseguita e discriminata» sostiene la regista, ma non la vedremo mai pregare o andare alla moschea, infatti la religione col velo non c’entra niente. Forse è tutta colpa della sua ex band punkettara che ha dimostrato come il gesto anarchico della musica ribelle fa male. I suoi componenti, ed ex amici, sono diventati tutti eroinomani e gangster. Meglio la melodia, la Pastorale , per esempio, che il film diffonde in una lugubre vigilia di Natale. Dajca è coprodotto dalla Francia, e si vede nell’eleganza delle immagini e nell’insopportabile uso di «frasi fatte» di regia. Contenuti forti per un format garantito, è il caso di The Sapphires (dietro c’è la mano di Weinstein, che è riuscito a far vincere l’Oscar perfino a The Artist ) diretto dall’australiano Wayne Blair. La ricetta del film (Certain regard) mescola storie vere e luoghi comuni più triti del filone «saranno famosi». Quattro ragazze aborigene, cantanti di country-soul, trovano il successo esibendosi di fronte alle truppe americane in Vietnam. Siamo nel ’68, e il regista (la produzione?) non rinuncia alla tentazione di spacciare i filmati di John, Bob Kennedy e Martin Luther King, che nulla hanno da spartire con gli amorazzi delle ragazze al fronte, tremanti di paura per i «nostri ragazzi». Dalla polvere delle «riserve» indigene ai lustrini del palcoscenico… le canzoni sono molto carine, ma è inutile fare appello all’«infanzia rubata» (i bambini aborigeni strappati ai genitori dai bianchi) per dare valore a questa soap canterina.

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