by Editore | 11 Maggio 2012 10:09
In Egitto il 23 e il 24 maggio si vota per le elezioni presidenziali in un clima di scontri e di confusione con l’esercito, non si sa quanto benedetto dai paesi occidentali timorosi del potere dei Fratelli mussulmani, pronto a rinviare tutto oppure ad accendere le tensioni pur di rimanere “garante” di una transizione che appare infinita[1]. Nelle prossime settimane però si capirà se la rivolta egiziana compirà passi positivi in direzione di un progressivo avanzamento delle istanze e delle speranze che avevano animato il popolo di piazza Tharir, oppure se il provvisorio equilibrio raggiunto si frantumerà a causa dell’incapacità politica della Fratellanza islamica, dei privilegi della casta militare, delle latenti contrapposizioni religiose e delle ingerenze estere.
È la Siria[2] però ad essere al centro dell’attenzione: da come si evolverà la crisi dipende il futuro immediato di buona parte del Medio oriente. Vale la pena ricordare che la rivolta siriana presenta caratteristiche peculiari rispetto a quelle avvenute in altri paesi arabi, avvicinandola più alla Libia che alla Tunisia. In Siria non c’è mai stata una sollevazione popolare generalizzata sia perché Assad controlla pienamente l’esercito (mentre in Egitto aveva abbandonato Mubarak), sia perché il quadro del paese è frammentato in diverse componenti etniche (arabi, curdi, turchi) e religiose (sunniti, sciiti, alauiti, drusi, cristiani) su cui il presidente/dittatore conta per ergersi ad indispensabile elemento di equilibrio. L’opposizione siriana è divisa al proprio interno:l’ESL (Esercito libero siriano)[3] è un insieme diversificato e ambiguo, non si sa fino a che punto integralista e sanguinario ma sicuramente non molto affidabile per un cambio di regime; il Consiglio nazionale siriano (CNS), che dovrebbe guidare la possibile transizione, è a sua volta incapace di trovare una posizione comune, con i gruppi curdi che si sono rifiutati di parteciparvi. Un quadro molto complesso che vede numerosi e potenti attori in gioco.
La Turchia è uno di questi protagonisti. In visita a Roma il premier turco Erdogan ha ribadito il proprio interessamento alla questione siriana, invocando l’invio di altri osservatori internazionali (Monti ha promesso che ci saranno anche italiani nella missione Onu) e la creazione di una zona cuscinetto ai confini con la Turchia. Neppure un intervento militare stile Libia non sarebbe escluso. Nello stesso tempo però Erdogan ha paura di una Siria ingovernabile[4] e divisa in varie zone[5] in cui la minoranza curda, connessa con quella presente in Iraq, possa rialzare la testa per rivendicare un Kurdistan libero e unito, comprendente anche la parte turca.
Nel frattempo il 7 maggio scorso si sono svolte in Siria le elezioni legislative[6], etichettate dall’opposizione e dai media internazionali come una farsa. Tuttavia non è detto che la consultazione sia naufragata. L’agenzia di stampa Nena news riporta alcuni commenti della gente[7]: “«La faccia del potere non cambierà », ha previsto un attivista Mousab Alhamadi, di Hama, «il regime si comporta come una anziana signora di 70 anni che si trucca per apparire diversa». Giudizi non condivisi da altri siriani. «Vado a votare perchè sostengo le riforme, il nuovo parlamento dovrà occuparsi prima di ogni altra cosa della disoccupazione per evitare che i siriani debbano emigrare», ha spiegato Shahba Karim alla Afp, 18 anni, che ieri ha votato per la prima volta”. Sul terreno intanto si continua a morire. Mentre l’inviato speciale delle Nazioni Unite Kofi Annanpaventa il rischio di una guerra civile[8], dalla Croce rossa internazionale, proprio nella giornata dell’8 maggio a lei dedicata, arriva un pressante appello per la raccolta di 20 milioni di euro per supportare la presenza in Siria.
Così riporta il sito della Croce rossa[9]: «“Decine di migliaia di uomini, donne e bambini sono ancora sfollati” ha detto Jakob Kellenberger, il presidente del CICR. “Alcuni sono ospitati dalle comunità di residenti, mentre altri hanno trovato rifugio in edifici pubblici. Ci stiamo prodigando per portare loro l’aiuto di cui hanno urgentemente bisogno incrementando la nostra risposta all’emergenza umanitaria”.
Mentre la calma è tornata, in maniera discontinua, in alcune parti della Siria, in altre aree gli scontri non sono cessati. “Molte persone stanno ancora faticando solo per sopravvivere alla giornata” ha detto Mr Kellenberger. “Altri stanno provando a ricostruire le loro vite da zero” .
“La nostra priorità è di migliorare le condizioni di vita e di ripristinare i pubblici servizi per più di 1.5 milioni di persone colpite dai combattimenti. Provvederemo mensilmente a fornire pacchi alimentari per circa 100.000 persone particolarmente vulnerabile e beni essenziali per la casa per più di 25.000 persone”.
“L’accesso illimitato alle aree colpite dai conflitti è la chiave per la prossima espansione delle nostre operazioni” ha aggiunto il presidente del CICR. “Negli ultimi due mesi, il CICR e la Mezzaluna Rossa Siriana sono riusciti a raggiungere la popolazione a Idlib, Homs, Hama, Dara’a, Aleppo e nelle zone rurali di Damasco. È incoraggiante che il nostro dialogo sia con le autorità e sia con l’opposizione sta dando frutti – in particolare siamo riusciti a ottenere una ‘tregua umanitaria’ della violenza per la prima volta due settimane fa a Douma, vicino Damasco, per due giorni consecutivi”».
Una situazione difficilissima dunque dove i piani si intersecano e dove troppo spesso le armi sono viste come la via più sicura e veloce per risolvere i problemi più ingarbugliati: una strada sbagliata che rischia di alimentare altri conflitti. Che in Medio oriente sono sempre dietro l’angolo.
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