Si dissolve il potere della Banca-Città caccia al colpevole del tracollo del Monte
Sembra lacrimare stamane l’arcidiacono senese Sallustio Antonio Bandini “che la dottrina della libertà economica insegnò prima per la prosperità “. Così recita l’iscrizione ai piedi della sua statua eretta dinanzi al castellare duecentesco dei Salimbeni, dove ha sede la Banca-Città della Città -Stato. Decine di finanzieri, nel senso di uomini della Guardia di Finanza, hanno violato mercoledì la “Scala d’Oro” di cemento armato costruita su progetto dell’architetto Pierluigi Spadolini, così chiamata per il numero di miliardi di lire costata a suo tempo, che conduce nel Sancta Santorum dirigenziale sotto l’affresco della Madonna della Misericordia dipinto da Benvenuto di Giovanni del Guasta. Là dove il nuovo presidente Alessandro Profumo, che da ieri è qui a rispondere a domande che un banchiere non vorrebbe mai sentirsi rivolgere, vedrà scorrere ancora lacrime e forse sangue. Perché il “groviglio armonioso” che il capo della massoneria toscana Stefano Bisi, prossimo Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia, ci magnificò qualche anno fa raccontandoci la “grazia” della Banca-Città , è ormai ridotto a un groviglio “bituminoso” o “fangoso”, come ha biascicato qualche giorno fa in piena assemblea un ex dipendente-azionista che ha perso il 70% dei suoi risparmi investiti nella Rocca franante. «Io – si giustifica oggi il presidente del Collegio dei venerabili – intendevo parlare di un groviglio che viene da secoli, da quando il Monte esiste». Un groviglio millenario di cui Profumo dice di non avere idea, perché – novello Alice nel paese delle meraviglie – di massonerie nulla dichiara di sapere, certificando la santità dei banchieri, che – dice – non sono brutti, sporchi e cattivi.
I senesi, si sa, sono gente di contrada un po’ anarchica e un po’ spocchiosa che finché le cose sembrava andassero bene nello scrigno bancario cittadino, unico esempio al mondo di un paradiso terreno costruito intorno a risparmio raccolto ovunque e speso qui, avrebbero offerto il petto a chi osava discutere il Monte. Noi qui, bonini bonini – dicevano parafrasando l’ex sindaco Pd Maurizio Cenni – abbiamo due o tre cose su cui non ci si divide mai: la banca, il palio e la nostra indipendenza. Ma ora che la Fondazione è alla frutta per aver dovuto far fronte alle ricapitalizzazioni seguite al trangugio del boccone Antonveneta e che rischiano di diventare un ricordo i quasi 200 milioni all’anno distribuiti tutto intorno a piazza del Campo per il benessere di 55 mila abitanti, cambia la musica. Niente più squadrone di calcio in A, Basket, Volley e aeroporto internazionale ad Apugnano, clone di Firenze e di Pisa, che sarebbe come mettere una pista per Jumbo tra piazza Venezia e palazzo Grazioli. Ora suona la canzone della “stecca”. Sì, perché lo spiegamento di forze in tutta Italia per dimostrare un possibile reato di aggiotaggio – che forse nessuno è mai riuscito a provare in tribunale – non convince una città dove tutti lavorano, hanno lavorato e forse non lavoreranno mai più per il Monte.
Cerchez la stecca, non una cosuccia, ma un miliardo e mezzo di extracosto sull’acquisto di Antonveneta dagli opusdeisti del Santander, che in pochi giorni lucrarono 3 miliardi e passa, parte dei quali chissà in quali tasche è finito. Fantasie, allo stato degli atti. Ma qui le leggende metropolitane sono dure a morire. Fin da quando fu acquistata per 2.500 miliardi di lire la Banca del Salento e il dominus dalemiano dell’operazione Vincenzo De Bustis venne a sedersi a Rocca Salimbeni con la sua corte.
D’Alema e la banca rossa? Macché. Siena sarà pure rossa da sempre, ma il potere forte e compatto è eternamente arcobaleno, in un compromesso politico ben più che storico, multicentenario. Pci, Pds, Ds, i democratici governano, comunque si chiamino, la città e fanno tutti felici nel codice che – bonini bonini – funziona da secoli e che ha garantito la “centralità millenaria”, come qui la chiamano, della banca.
A palazzo Salimbeni sono tutti equamente rappresentati su designazione politica locale e nazionale: partiti, Chiesa, Opus Dei, Massoneria, che qui è gran parte della borghesia, ma anche del ceto medio impiegatizio e commerciale, a sostegno di entrambe le tesi, quella di Benedetto Croce e quella di Antonio Gramsci. Mancano soltanto i gay, che infatti più di una volta hanno protestato: a Siena siamo più noi dei cattolici, allora perché la Curia ha un posto in Fondazione e noi no? Sessuofobi. Ma per il resto… Denis Verdini, plenipotenziario del partito di Berlusconi ancora forte prima del terremoto Grillo, si sbraccia l’anno scorso – così narrano – per sostenere la candidatura perdente a candidato sindaco e favorire la già scontata elezione del Pd Franco Ceccuzzi. Ma se l’ex macellaio di Campi Bisenzio ha bisogno di qualche milione per fronteggiare la precaria situazione della sua ex banchetta personale e della sua famiglia appassionata di ville, Rocca Salimbeni non fa una piega e nella sua millenaria centralità fa il suo dovere. Il direttore della Nazione è costretto per non fare la figura del peracottaro a dare qualche notizia sulle vicende della Banca-città e in un sospiro viene silurato dalla famiglia Monti-Riffeser, proprietaria del giornale, che ha in corso una bella speculazione edilizia nella tenuta di Bagnara, dove convolarono a nozze Casini e Azzurra Caltagirone. Il papà della sposa ha speso qualche centinaio di milioni nella Rocca ma, sempre il più furbo di tutti, si è sfilato appena ha potuto quando ha visto la malaparata.
I furbetti del quartierino alla scalata Antonveneta furono l’inizio di tutto. Fu poi, in onore alla vocazione trasversale che vide passare la banca veneta dei preti cattolici dai calvinisti olandesi dell’Abn-Amro agli opudeisti spagnoli del Santander e infine, a prezzi d’affezione, ai “comunisti” senesi che il presidente uscente, oggi presidente dell’Associazione bancaria, ci garantì con mani giunte sotto la Madonna della misericordia: «La nostra operazione su Antonveneta è stata fatta senza furbi, furbetti e furbacchioni». E la storia dimostra che i furbacchioni latitarono proprio, perché come dice Profumo «meglio veloci che grossi», soprattutto se è vera la tesi di un banchiere importante, ma non quotabile, che allora seguì la vicenda da un osservatorio privilegiato. Oggi ci garantisce che, secondo lui, il Monte mangiò l’Antonveneta non per produrre “stecche”, ma per velleitarismo da piccola capitale bancaria del mondo, per evitare di essere mangiato da Unicredit o da Intesa-San Paolo e per garantire alla Banca-Città la sua “centralità millenaria”, scalando la terza posizione tra le banche nazionali. Ce lo ha sempre teorizzato, alla senese, anche Maurizio Cenni, allora sindaco e oggi vicedirettore generale, guarda un po’, del Monte: «Noi siamo lupi, non pecore o orsacchiotti, come diceva Troisi. Non ci facciamo mangiare, semmai mangiamo». I lupi del Pd intanto, per contrastare l’onda dell’antipolitica grillina, hanno già cominciato il banchetto. Mangiandosi tra loro.
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IN UN articolo su queste colonne (“Ecco come tagliare la spesa pubblica”, 21 Gennaio) ho suggerito come risparmiare dal bilancio dello Stato, senza riforme strutturali, quei 35-40 miliardi l’anno che ci permetterebbero di finanziare un corrispondente taglio delle imposte a regime.