Se Wall Street è senza regole

by Editore | 15 Maggio 2012 8:42

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In seguito, più avanti nel film, scopriamo che Gatewood taglia la corda dalla città , portando via una bisaccia piena zeppa di bigliettoni che ha sottratto indebitamente. 
Da quel che ne sappiamo finora, Jamie Dimon – presidente e amministratore delegato di JP Morgan Chase – non ha in mente nulla del genere. Tuttavia ci risulta che spesso gli è piaciuto fare discorsini come quelli di Gatewood su come lui e i suoi colleghi sanno perfettamente quello che stanno facendo e non hanno certo bisogno che il governo stia loro col fiato sul collo. Di conseguenza, nello sconvolgente annuncio da parte della JP Morgan di essere riuscita a bruciare chissà  come due miliardi di dollari circa, in un tentativo infruttuoso di intrallazzi finanziari, ci sono un bel po’ di giustizia divina e una fondamentale lezione comportamentale da apprendere. 
Giusto per essere chiari: gli uomini d’affari sono uomini – quantunque i Signori della finanza abbiano una certa tendenza a dimenticarlo – e di conseguenza commettono di continuo errori in perdita. Di per sé questa non è una ragione sufficiente per la quale il governo debba intervenire. Le banche, però, sono speciali, perché i rischi che si assumono sono sostenuti, in buona parte, dai contribuenti e dall’economia nel suo complesso. E il caso di JP Morgan ha appena dimostrato che perfino i presunti banchieri intelligenti devono avere rigidi limiti nella tipologia di rischio che sono autorizzati ad assumersi. 
Per la precisione: perché le banche sono speciali? Perché la storia ci insegna che il settore bancario è ed è sempre stato soggetto a sporadici e devastanti “ondate di panico”, in grado di scatenare il caos in tutta l’economia. La destra sta attualmente diffondendo la panzana secondo la quale un cattivo andamento del settore bancario è sempre conseguenza di un intervento del governo, attuato tramite la Federal Reserve oppure con le ingerenze dei liberal al Congresso. In realtà , tuttavia, l’America dell’Età  Dorata – quella nella quale il governo si intrometteva il meno possibile e la Fed non esisteva neppure – era soggetta al panico più o meno una volta ogni sei anni. E in alcuni casi si inflissero così gravissime perdite all’economia. 
Ma allora, che cosa fare? Negli anni Trenta, dopo la madre di tutti gli attacchi di panico delle banche, arrivammo a una soluzione praticabile, che contemplava garanzie e controlli a uno stesso tempo. Da un lato, il dilagare del panico fu arginato tramite assicurazioni sui depositi garantite dallo stato; dall’altro, le banche furono sottoposte a regolamentazioni miranti a impedire che potessero abusare dello status privilegiato derivante loro proprio dall’assicurazione sui depositi, in pratica una garanzia governativa dei loro debiti. Cosa ancora più importante, le banche con depositi garantiti dallo Stato non furono autorizzate a impegnarsi in speculazioni spesso rischiose, tipiche di banche di investimento quali Lehman Brothers. 
Questo sistema ci ha regalato mezzo secolo di relativa stabilità  finanziaria. Alla fine, però, ci siamo dimenticati ciò che la storia ci aveva insegnato. Sono proliferate nuove forme di attività  bancaria senza garanzie statali, e al contempo si è permesso sia alle banche tradizionali sia a quelle all’avanguardia di accollarsi rischi sempre maggiori. Come era prevedibile, alla fine abbiamo dovuto subire la versione Ventunesimo secolo del panico bancario dell’Età  Dorata, con conseguenze tremende. 
È evidente pertanto che dobbiamo assolutamente ripristinare quel tipo di tutela che ci ha regalato per un paio di generazioni una tregua dalle grandi preoccupazioni bancarie. O meglio, questo è evidente a tutti fuorché ai banchieri e ai politici finanziati dai banchieri, in quanto essendo stati salvati in extremis adesso naturalmente questi ultimi sarebbero ben felici di tornare a fare affari come al loro solito. Ho già  citato il fatto che Wall Street sta versando ingenti quantità  di soldi a Mitt Romney, che ha promesso di abrogare le recenti riforme finanziarie? 
Arriviamo adesso a Dimon. Dobbiamo riconoscere a JP Morgan – e a Dimon – il merito di essere riuscita a tenersi alla larga da molti dei pessimi investimenti che hanno messo in ginocchio altre banche. Questa manifesta dimostrazione di prudenza ha fatto di Dimon l’uomo di punta nella battaglia ingaggiata da Wall Street volta a procrastinare, annacquare e/o abrogare la riforma finanziaria. Egli si è distinto e si è fatto particolarmente sentire quando si è opposto alla Volcker Rule, che precluderebbe alle banche con depositi garantiti dallo Stato la possibilità  di impegnarsi nel “proprietary trading”, in sostanza di effettuare speculazioni con i soldi dei depositanti. «Fidatevi di noi», ha detto in pratica il capo della JP Morgan. «È tutto sotto controllo». 
Pare proprio di no, invece.
Che cosa ha fatto in realtà  la JP Morgan? Da quanto ne sappiamo, ha utilizzato il mercato dei derivati – complessi dispositivi finanziari – per scommettere fortemente sulla sicurezza dell’indebitamento delle aziende, qualcosa di simile alle puntate effettuate dalla compagnia di assicurazioni Aig sull’indebitamento immobiliare di qualche anno fa. Il punto cruciale non sta tanto nel fatto che la scommessa non è andata a buon fine, ma che gli istituti che rivestono un ruolo cruciale nel sistema finanziario non hanno il diritto di fare simili scommesse. Tanto meno quando questi stessi istituti sono sorretti da garanzie dei contribuenti. 
Per adesso pare che Dimon sia stato punito. Avrebbe perfino ammesso che forse chi propone una maggiore regolamentazione ha segnato un punto a proprio favore. Quasi certamente, però, non durerà : mi aspetto che Wall Street torni alla sua consueta arroganza nel giro di settimane, forse addirittura giorni. 
In verità , abbiamo appena assistito a una dimostrazione pratica del motivo per il quale, di fatto, Wall Street ha bisogno di essere regolamentata. Grazie Mister Dimon. 
(Traduzione di Anna Bissanti)

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